La panificazione a Millaures
Furnea a Miaraura
Introduzione
Fin dai tempi più remoti il pane ha rappresentato la fonte fondamentale, e non di rado unica, dell’alimentazione di numerosissime civiltà e più in particolare delle popolazioni alpine.
Per questo ha sempre goduto in tutti i tempi di grande considerazione. La sua preparazione ha generato attraverso i secoli una ritualità ed una simbologia di sacralità, identificando in esso il prodotto finito del lavoro dei campi che nell’ambiente alpino è reso particolarmente duro e difficile dall’asprezza del clima, dalla povertà del suolo, dai periodi di raccolti brevissimi, spesso travolti dall’arrivo di nevi precoci.
Per questo, per la sua estrema importanza nel sostentamento è assurto a simbolo del lavoro della terra, del nutrimento e della relazione sacra con il Creatore.
Il significato del pane nella cultura cristiana
Nella cultura cristiana il pane ha un significato particolarmente importante costituendo un elemento di ospitalità e di condivisione fin da tempi remotissimi, ne abbiamo testimonianza nell’Antico Testamento quando Abramo riceve da Melchisodok, re di Salem, pane e vino in segno di offerta di amicizia.
Leggiamo al Salmo 103, versetti 14 e 15 “Tu farai crescere il fieno per le bestie e gli erbaggi per uso degli uomini: per trarre dalla terra il pane (…..) e il pane dà vigore al cuore dell’uomo”.
Le parabole di Gesù fanno più volte riferimento al grano, al pane ed al lievito, come quella del seminatore, del buon grano e della zizzania, quella del lievito nel quale identificò i cristiani che dovevano crescere ed essere, attraverso l’esempio, sempre più numerosi.
Non possiamo dimenticare che uno dei miracoli di Gesù fu proprio la moltiplicazione dei pani e dei pesci ed in quell’occasione pose particolare attenzione affinché tutti gli avanzi di pane fossero raccolti da terra e non andassero persi.
Nondimeno una delle sette invocazioni del Padre Nostro recita “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Il culmine della sacralità del pane si ha nell’ultima cena, quando Gesù identifica in esso il proprio corpo. Un bellissimo esempio che ci racconta chiaramente il suo valore sacro ci viene da Don Fransoùa di Chiomonte. Nella cappella di Casa Amica, residenza per anziani di Chiomonte, egli ha collocato l’antica madia, dove la mamma Clementina di Sauze d’Oulx tante volte impastò il pane per la famiglia, come altare sul quale celebra la consacrazione del Pane Eucaristico.
In tempi a noi più vicini durante la Quaresima si celebrava la messa pro-offerentibus, secondo le intenzioni per le anime dei defunti, durante la quale i partecipanti recavano come offerta un recipiente a forma di bacinella detto
grarë, colmo segale oppure orzo o avena, e lo versavano in un
arcë1 esposto al centro della chiesa, un grande contenitore di legno suddiviso in settori, per ricevere le diverse qualità di grano.
Inoltre in ogni cappella era sistemato un
arcë per ricevere le offerte dei fedeli, che venivano puntualmente contabilizzate nei registri tenuti dai procuratori.
Citiamo solo alcuni esempi. Nel manoscritto della cappella di San Claudio, nell’anno 1694 il suo procuratore, Laurent Blanc annotava che “... Pierre Allemand ha potuto lasciare tre
cartie2 di grano per la metà della raccolta del campo che ha mietuto” e più avanti lo stesso Curato Joseph Faure scriveva di aver “Ricevuto dagli eredi di Joseph Allemand un
cartie di grano di segale il 2 novembre 1713 lasciato dal suo testamento e messo nell'
arcë3 della cappella”.
Il grano veniva poi man mano rivenduto per acquistare candele, tovaglie d’altare e per ogni altra necessità della cappella. Sempre Laurent Blanc: “Questo ottavo marzo 1705 ho venduto un
setië3 di grano della cappella a Jean Francois Guiffre per il prezzo di tre lire tre soldi in moneta” e ancora “Questo 21 giugno 1706 ho venduto una
eminë4 di grano della cappella per il prezzo di due lire sette soldi in ragione di 4 lire 14 soldi al
setië.
Altre testimonianze ci arrivano dal diario dalla cappella di Sant’Anna della borgata Medail, originariamente nata come Nostra Signora delle Grazie: “Ricevuto una
cartië di grano e una lira di olio che il sig. Louis Medail procuratore della detta cappella di Nostra Signora delle Grazie ha pagato per sua madre data per testamento , questo 20 marzo 1677” e più avanti: “Ho ricevuto dagli eredi di Antoine Gleise, moglie, quand'era in vita, di Laurent Faure, una
cartië di grano di segale e una libbra di olio questo ventinovesimo gennaio dell'anno 1682”.
Il 2 luglio di ogni anno si celebrava una processione che partendo dalla Parrocchia di Sant’Andrea e passando da Sant’Anna
du Mdau, arrivava fino a San Giacomo e Andrea
duz Öru, raggiungeva Sant’Antonio al
Gutìë, scendeva a
Notrë Dammë dlë Neë alla Bruë e terminava a
Notrë Dammë ‘d Cotarlau dov’era celebrata una messa durante la quale si offriva il pane benedetto. Una merenda sui prati di tutti i partecipanti alla processione concludeva la giornata.
Il mulino
Il mulino comunale di Millaures si trovava presso la Dora di Rochemolles in località
Baumë, e dava il nome al vallonetto che funge da confine tra Bardonecchia e Millaures,
lë Cumbë du Murin.
Il mulino era a due palmenti ed inoltre c’era la
pitë, la pesta dove si trituravano fave, orzo, avena e dove veniva passata anche la canapa per ammorbidirla prima di lavorarla con il
brutë. Inoltre fungeva da frantoio per i semi da olio, quali quelli della canapa e del
marmutìë 5.
A differenza delle macine per farina, coniche, sovrapposte ed attraversate da solchi per favorire l’uscita della farina, la
pitë era costituita da una grossa base piatta e fissa di pietra scavata, all’interno della quale era posta la pietra rotante.
Per ottenere un perfetta molitura la superficie delle pietre doveva essere leggermente abrasiva. La distanza tra le due era regolata da una leva e stava all’abilità del mugnaio stabilire la giusta distanza per ottenere una farina più o meno fine.
La leva aveva inoltre un sistema che permetteva di alzare e rovesciare la pietra rotante per poterne verificare la superficie. Se presentava dei punti lisci significava che c’era contatto tra le macine e bisognava martellare accuratamente ogni punto di aderenza.
Un altro sistema era quello di passare un asse preventivamente spalmato di mattone rosso. Dove lasciava il colore era da martellare.
Da un documento dell’Archivio di Stato di Torino recante la data del 6 giugno 1586 si legge che la Comunità di Millaures ha acquistato dal nobile Espirt de Nevache, consignore di Bardonecchia, le rendite, redditi ecc., “sur les Moulins apellés de la Balme”.
L’uso dei mulini comunali era rigidamente regolato dai Bandi Campestri di Millaures del 1841 che all’articolo 6 lamentano l’abuso di molti di portare altrove il grano a macinare ed i semi di canapa da cui estrarre l’olio, cosicché il mugnaio non percepiva alcun guadagno né salario diventando sempre più difficile far fronte alle spese annuali di manutenzione del mulino e della macina. Stabiliva quindi che nessuno potesse macinare grano e fare olio al di fuori del mulino comunale fissando con il mugnaio la data presunta del trasporto e confermandola due giorni dopo.
Si poteva macinare altrove pagando però la
mouture ordinaria. Soltanto se le strade risultavano impraticabili a causa del maltempo il giorno stabilito, si poteva macinare altrove senza penalità previo una domanda al sindaco che doveva accertare il reale impedimento.
L’indispensabile esigenza da parte della popolazione di utilizzare i mulini per produrre farina fornì ai vari governi, fin da tempi remoti, l’occasione di porre balzelli e tasse facili da riscuotere.
Dal diario di Laurent Allizond di Millaures : “Dal primo gennaio 1869 il Governo ha messo imposte sui mulini per pagare i debiti dello stato e per emettere i biglietti della Banca (infine, stavamo molto meglio quando non avevamo che il piccolo Piemonte, la Savoia e Nizza).
Le imposte a cui si riferisce l’autore del diario furono introdotte dalla Destra Storica per risanare un grave disavanzo della finanza pubblica ideando un pagamento in base al numero di giri delle macine misurati con un apposito contatore meccanico. Venivano quindi conteggiati anche i giri a vuoto, normali nei piccoli mulini. La conseguenza fu un rincaro del pane che ebbe un impatto enorme sulla popolazione. Si ebbero proteste popolari anche molto dure, specialmente in Emilia Romagna, dove vennero represse nel sangue dalla forza pubblica. Si contarono oltre 250 morti e 1000 feriti.
Il mulino
dlë Baumë era alimentato dall’acqua che affluiva attraverso la costruzione e modificazione del canale di derivazione che pescava a monte del ponte provinciale nel torrente di Rochemolles e che forniva l’acqua ai compressori che pompavano aria nel tunnel ferroviario del Frejus. Lo stesso canale serviva, oltre che la macina, anche la fucina e la segheria idraulica posta a valle del mulino. Già nel 1890 poteva contare su tre ruote idrauliche. Più tardi, intorno al 1924-25 con l’elettrificazione, si installò un motore che serviva sia il mulino che la segheria.
La farina migliore si otteneva però con i mulini ad acqua perciò alcuni preferivano portare il grano al mulino dell’
Anvē di Beaulard (dove ora sorge il ristorante “Al Mulino”) che aveva le macine sempre ben scalpellate, o a
Ciärlina, dove si trovavano anche le carde per la lana.
Altri mulini a cui gli abitanti di Millaures potevano rivolgersi erano quelli privati di Royere e Beaulard.
A partire dal 1876 Millaures affittò il mulino a Giuseppe Picchiotti di Giaglione che lo condurrà fino alla sua morte nel 1920, occupandosi, oltre che del mulino, anche della fucina essendo fabbro ferraio.
Dopo di lui il mulino fu gestito da Modesto Tournour (suo fratello Piero era mugnaio all
’Anvē) e alla sua morte dal figlio Adolfo mentre nella fucina lavorava Camillo Cecile che all’occorrenza dava una mano al mugnaio. L’ultimo fabbro fu Gutié di Salbertrand, che finì per trasferire l’attività a Oulx essendo sempre più scarsi i muli da ferrare.
Nel 1970 alcuni consiglieri comunali di Bardonecchia (nel 1927 il comune di Millaures fu accorpato a Bardonecchia insieme a quelli del Melezet e di Rochemolles, si recarono a Busca in provincia di Cuneo ed acquistarono una macina a martelli (ne aveva 16) che all’occorrenza veniva messa in funzione da Luigi Lambert, cantoniere comunale, senza versare alcun pagamento. Questo tipo di macina produceva però solo farina adatta all’alimentazione del bestiame; d’altronde in quegli anni nessuno panificava più nei forni comunali, e la richiesta di macinare andò via via scemando fino ad arrivare al totale abbandono della campagna e del mulino che cessò completamente l’attività alla fine degli anni ’70.
Anche gli abitanti di Rochemolles
, di quando in quando, allorché ritenevano le condizioni più convenienti rispetto al loro, si servivano del mulino della
Baumë e più raramente, data la distanza, di quello di
Ciärlina. Questo fino al 1961, tragico anno in cui una valanga che distrusse quasi interamente il paese, ne decretò la fine. Infatti tutti gli abitanti furono evacuati e si stabilirono a Bardonecchia e nelle sue borgate e da allora il paese non fu più stabilmente abitato, i campi non furono più coltivati e la macina del mulino presso il torrente cessò per sempre di girare.
Spesso però il grano di Rochemolles aveva un tasso di umidità piuttosto elevato in quanto la maturazione, alla quota di oltre 1700 m. dove veniva coltivato, era assai tardiva. Gli
Arcëmurìe erano soliti quindi lasciare i covoni ad asciugare sui balconi che a questo scopo erano sprovvisti di ringhiera. Ma non sempre era sufficiente, così il mugnaio ne testava l’umidità introducendo semplicemente una mano nel sacco. Se il risultato non lo soddisfaceva, stendeva il grano su teli al sole per farli asciugare ed evitare d’impastare la mole correndo il rischio di doverla poi martellare.
Durante la seconda guerra mondiale anche i tedeschi portavano il grano da frantumare per i muli, ma talune volte il mugnaio lo sostituiva con della segale.
Con la costruzione dello svincolo autostradale il mulino, insieme con la fucina, è stato raso al suolo ed al suo posto sorgono ora grossi piloni in cemento armato. Della lunga fila di pietre consunte collocate davanti al mulino e al maniscalco si è persa ogni traccia. Le possiamo ancora intravedere in una fotografia degli anni ’20 che ritrae l’operazione della ferratura che si svolge davanti alla porta della fucina. In secondo piano, più basso, si scorge il tetto e parte della costruzione del mulino. Appoggiate al muro di fondo, tra le zampe di altri muli in attesa del loro turno per essere ferrati, si intravedono le rotondità delle macine in disuso. In alto a destra spicca l’angolo della casa bianca tutt’oggi esistente.
Oggi la
pitë si trova nei pressi del municipio e porta inciso 1695 MRV, mentre la pietra rotante datata 1804 è sistemata alla rotonda presso l’Ufficio del Turismo.
Da segnalare che recentemente, durante gli scavi per il nuovo centro medico che sorgerà sul lato opposto del torrente e oltre 300 metri più a valle del vecchio mulino, sono state rinvenute due grosse pietre da macina.
Il grano al mulino veniva portato ogni due o tre mesi durante il periodo invernale, in appositi sacchi di tela bianca, gli stessi nei quali si riportava a casa la farina. Bisognava calcolare però che per ogni sacco di grano occorreva portare tre sacchi: uno per la farina di prima scelta, uno per la seconda scelta ed il terzo per la crusca. Con la prima si confezionava il pane di prima qualità, con la seconda il pan bülì, pane nero, mentre la crusca era utilizzata nell’alimentazione del bestiame. |
|
Il giorno concordato si caricavano i sacchi di grano sul mulo senza dimenticare di portare un tascapane con un fiasco di vino, della toma, pane e salame: l’operazione richiedeva molto tempo e sforzo fisico, si dava una mano al mugnaio per salire la scala con i pesanti sacchi a spalla e versare il grano nella tramoggia e per scaricare e caricare i sacchi dal mulo. La tramoggia era provvista di una campanella collegata ad una corda che si tendeva quando si svuotava facendola suonare avvisando che era tempo di vuotare un altro sacco.
La farina così ottenuta veniva passata nel
barité, un setaccio esagonale i cui lati erano costituiti da teli di seta che serviva per abburattare la farina separando il fior di farina da quella di seconda scelta e dalla crusca. Solo la farina d’orzo non subiva questo processo perché le reste si sarebbero infilate nella seta rovinandola. Ognuno quindi doveva setacciarla a casa negli appositi setacci.
Se la stagione era stata favorevole e si aveva la fortuna di avere del frumento, veniva macinato a parte e la farina ottenuta veniva usata per cucinare piatti particolari quali
la cora, lu turtiou, lu binhou, lu nhokke, luz anholò.
Inoltre qualche sacco di farina si portava in un panificio/pastificio a Jovenceaux per averne in cambio della pasta che si riportava a casa dentro delle ceste separando i vari strati con teli bianchi.
Di ritorno dal mulino si conservava la farina nella
ciämbrë du pan, ogni casa ne aveva una, un locale adibito alla conservazione del grano, della farina e del pane.
Venivano inoltre macinate una certa quantità di orzo, d’avena e di fave la cui farina veniva utilizzata per gli animali, in particolare si facevano nutrienti pastoni per ingrassare il maiale in quanto le fave davano un gusto particolarmente apprezzato al lardo.
La preparazione del pane
L’arte della panificazione è stata praticata fino agli anni a metà degli anni ’60. Gli ultimi ad accendere il forno del
Rivau furono le famiglie di Mario Agnes del
Mē e quella di Nando Souberan, sfollato da Rochemolles dopo la valanga del ’61 e residente al
Ser. Si intensificò durante gli anni della seconda guerra mondiale quando si dissodarono campi incolti da tempo e molti che avevano smesso di fare il pane ricominciarono per la necessità di sopperire ai razionamenti.
La panificazione non era ad esclusivo appannaggio delle donne e anche gli uomini partecipavano alla preparazione dell’impasto che avveniva nei mesi caldi, all’incirca da Pasqua fino all’autunno, poiché nei mesi freddi la lievitazione non avviene come si conviene, per di più la neve ed il gelo avrebbero reso difficile portare a spalla il pane sulle lunghe e pesanti
tabbla du pan e un maggior dispendio di legna ed energia per il riscaldamento del forno.
Dunque alla fine dell’inverno, quando la temperatura era più mite e la quantità di pane in dispensa cominciava a scarseggiare, si decideva di comune accordo di fare la prima infornata della stagione.
Si panificava circa una volta al mese, avendo cura di fare un imposto più abbondante prima del 2 giugno, data della monticazione, quando occorreva portarne una certa quantità di scorta nelle baite. L’ultima panificazione avveniva intorno a Sant’Andrea ed era chiamata
ciarandià da
Cërënda, Natale. Essendo l’ultima prima dell’inverno ogni famiglia poteva fare anche due o tre infornate per avere una sufficiente provvista per l’inverno. Il forno perciò rimaneva acceso per più giorni consecutivi, si iniziava all’alba e si continuava fin verso mezzanotte, lasciando solo un breve intervallo di ore perché non si disperdesse del tutto il calore.
Se durante l’inverno qualcuno finiva la propria riserva, si poteva portare la farina dal panettiere e farsi confezionare i pani, ma questo aveva un costo che non tutti potevano o volevano sostenere. Se oltre a ciò si restava sprovvisti di grano, e questo accadeva generalmente nei mesi di maggio o giugno quando ancora non era maturo il grano nuovo, si doveva ricorrere alla generosità di qualche parente o vicino che ne avesse a sufficienza da poterne prestare un po’. Il detto “T
ra ‘l viòu e il nuvé lë nhà dë lesà lë pé”, tra il vecchio ed il nuovo c’è da lasciarci la pelle, ben riassume il fondamentale ruolo che questo nutrimento aveva nell’alimentazione.
Per una buona riuscita della lievitazione era essenziale che la preparazione dell’impasto avvenisse dopo il primo quarto di luna.
Un giorno prima di quello stabilito per il proprio turno si preparava il lievito che altro non era che un avanzo fermentato del precedente impasto conservato nell’apposito gërlò dl’ëlvan. Si toglievano eventuali crescite di muffe e si iniziava ad arfreciā l’ëlvan, si ravviva cioè il lievito sciogliendolo un poco alla volta nell’acqua tiepida nella quale era stato sciolto il sale con ‘l casū ‘d bō ed amalgamando gradualmente la farina. |
|
L’operazione avveniva in cucina, al caldo ed in più fasi successive dando ogni volta il tempo al lievito di fermentare di modo che la pasta diventasse spugnosa ed aumentasse di volume. Si iniziava in un
gërlò finché la quantità dell’impasto era poca e continuando poi ad
arpatā din lë mä man mano che la quantità cresceva, rigirando l’impasto con movimenti lenti ma vigorosi che richiedevano un notevole sforzo fisico. Quando la quantità era ritenuta sufficiente lo si deponeva nella madia, ricoperto con panni caldi, e lo si lasciava lievitare per alcune ore.
Se la temperatura non era sufficientemente alta per una buona lievitazione si scaldavano dei sacchi di tela bianchi alla stufa e si ricopriva l’impasto.
Se si era tra i primi di turno al forno le donne potevano iniziare a
fā pan, ripartire la pasta in pani, prima dell’alba, mentre agli uomini spettava accendere il fuoco e scaldare il forno. L’impasto veniva suddiviso a pezzi di circa un chilo sulla
tabblë dlë ma confezionando pani di forma rotonda che si marcavano con un segno distintivo, in genere una croce o delle mezzelune. Questo accorgimento si rendeva necessario in quanto la capacità dei forni variava da 40 a 50 forme mentre il fabbisogno mensile di una famiglia era di circa 20 per cui ogni infornata vedeva due famiglie insieme ed ognuna doveva poter riconoscere il proprio prodotto.
|
Le forme così ottenute si sistemavano sulle tabbla du pan preventivamente spolverate con farinëttë o brën. Queste erano lunghe assi di legno dalle estremità tipicamente arrotondate che venivano usate sia per il trasporto dei pani verso il forno che per riportarli dopo la cottura. |
|
Con la
farinëttë veniva elaborato il
pan bülì, mescolando la
farinëttë con acqua bollente e con pochissimo o niente lievito. L’impasto così ottenuto era molto duro da lavorare e lo si faceva utilizzando un bastone a manico lungo dentro la
medëttë.
Con la farina d’orzo si confezionava il
pan d’örgià molto apprezzato da alcuni, ma che non si conservava a lungo, infatti dopo due o tre giorni diventava amaro.
Pare che il pane migliore fosse quello preparato a
La Glèiza forse grazie ad un’acqua diversa.
Il forno
L’articolo 10 dei bandi campestri proibiva l’uso di forni privati “a meno che non siano posti in luoghi ove vi sia volta su volta, sotto pena di cinque
livre oltre al danno in caso d’incendio”.
I forni comunali utilizzati sono costituiti da un edificio che ospita il forno vero e proprio.
Al suo interno, abbastanza ampio da permettere di manovrare gli attrezzi necessariamente lunghi, si trova, addossato ad una parete, il
cëvilhìë, una rastrelliera costituita da dei pioli sporgenti da due pali verticali che consentiva l’appoggio delle
tabbla du pan.
Davanti alla bocca del forno potevano essere infisse due pietre verticali recanti una scanalatura per appoggiare gli attrezzi quali la pala,
l’ecubà ecc.
La cupola del forno e la base erano costituite da mattoni refrattari e sulla cupola erano presenti delle aperture che fungevano da tiraggio e da camino per la fuoriuscita del fumo.
I forni presenti sul territorio di Millaures erano nove: quello del
Baraban, presso il ponte, oggi rimane solo una fotografia, che serviva alla borgata del
Pärciā e poteva contenere 60 pani. Al
Cumbaré era esistente un forno a due bocche, ma se ne ricorda in funzione solo una, serviva le case del
Ser, ma quando anche la seconda bocca diede segni di cedimento, fu abbandonato e gli abitanti della borgata si recavano al
Baraban. Al
Rivau è ancora oggi in buono stato e funzionante il forno che utilizzato dagli abitanti del
Mē,
dl’Estadellë,
duz Andriòu e del
Rivau e che può contenere 50 pani.
U Mdau è purtroppo andato distrutto il forno un tempo situato all’imbocco del tratturo che scende verso
luz Andriòu.
A
Grangë Garnìë, dopo la fontana, è ancora visibile il forno al cui ingresso è posta una pietra datata 1622 e le iniziali AB. Fu completamente rifatto nel 1929 quando un’alluvione lo travolse e distrusse. A
La Gleiza il forno è stato restaurato ed è visitabile, mentre al Reo è stato trasformato in casa privata.
Oggigiorno la panificazione tradizionale non si pratica più da molto tempo, ma nel villaggio du Rcià, una volta all’anno, ci si ritrova ancora per la panificazione nel forno ristrutturato in anni recenti dagli stessi abitanti. Il pane non viene più fatto con lo scopo di avere di che sfamarsi, ma per mantenere viva una tradizione e per non dimenticare il legame che ha sempre unito i montanari alla loro terra. Incastonata nel muro di sostegno è visibile una pietra datata 1780 recante una croce e iniziali di Allizond Antoine, venuta alla luce durante i lavori di ristrutturazione.
A lë Bruë troviamo l’ultimo forno che ha la particolarità, essendo molto piccolo, di non avere copertura, ma si infornava direttamente all’aperto. La bocca del forno è costituita da un’unica pietra angolata. Sul fianco della costruzione è visibile la data del 1882 e le iniziali GP.
Si contavano anche alcuni forni privati, al Parciā da Ernani, e Allizond Pierino. A La Gleiza Guiguet Lisa infornava un ottimo pane nel suo forno privato.
All’alpeggio duz Öru non si ricordano forni, ma il toponimo Pra du Fū con cui vengono identificati alcuni prati presso la fontana Gro Bäcià, sta ad indicare che in tempi remoti si panificava anche in questo nucleo di case.
L’accesso al forno era regolato da dei turni precisi e si effettuava a rotazione, in quanto i primi che dovevano accendere il fuoco per portare il forno alla giusta temperatura dovevano impiegare una maggiore quantità di legna.
Per la prima infornata della stagione si iniziava già il giorno prima a emudā ‘l fū, a scaldarlo per eliminare l’umidità dell’inverno con cespugli biancospino, rosa canina e ginepro, quest’ultimo apprezzato per l’aroma che profumava il forno ed il pane.
Il giorno seguente si sistemavano laz etella, dei pezzi di larice lunghi oltre un metro, posizionandoli inizialmente al centro del forno, ma poi man mano spostandoli anche verso i bordi. Occorrevano da 40 a 50 etella per ogni particolare a seconda dell’ampiezza del forno. Durante questa fase venivano aperti gli sfiati del tiraggio. Inoltre si cercava di disporre la brace in modo uniforme disponendola anche lungo le pareti perché si riscaldassero in modo omogeneo.
L’illuminazione all’interno del forno veniva assicurata accendendo dei rami di pino resinoso detti teë. Bisognava avere una buona esperienza per stabilire quando il forno aveva raggiunto la giusta temperatura, si tenevano d’occhio i mattoni della cupola che con il calore cambiavano colore, diventando bianchi. Si procedeva quindi alla pulizia eliminando la brace che si asportava utilizzando dapprima lë rabbi e deponendola in una buca detta brëzìë appositamente scavata in un angolo del pavimento dove si aggiungeva dell’acqua per prevenire il rischio d’incendi. La carbonella così ottenuta veniva portata a casa ed utilizzata nella forgia per riparare attrezzi come bigò, pale, ecc.
Quindi, per eliminare ogni residuo di cenere e brace, si spazzava il piano del forno con l’ecubà, il frusciandolo, che era stato preparato il giorno prima legando strettamente in punta ad un lungo bastone dei rami di pino che avessero forma arrotondata, a guisa di scopa. Sia il rabbi che l’ecubà venivano bagnati frequentemente per evitare che si incendiassero.
Poi si chiudevano gli sfiati per impedire al calore di uscire e si incominciava ad infornare i pani con lë parë prelevandoli dalle assi e disponendoli secondo una tecnica precisa che prevedeva di sistemare i primi al centro e man mano verso il bordo.
Si chiudeva la gorgë du fū e si aspettava circa due ore, tanto era il tempo di cottura.
Durante l’attesa la gente ne approfittava per parlare e bere un bicchiere in compagnia.
Con la prima infornata si cuoceva il pan curun, era una forma particolare, un po’ allungata fatta con gli avanzi della pasta, ed era tradizione che la madrina lo portasse al figlioccio accompagnandolo con due noci o un altro frutto. |
|
Per ultimo si cuoceva il pan bülì, si metteva in forno, si chiudeva accuratamente e si lasciava a cuocere tutta la notte. Poiché la lunga esposizione al calore lo avrebbe eccessivamente disseccato, si introduceva una pentola colma d’acqua affinché l’evaporazione ne conservasse l’umidità. |
Venivano confezionati anche pani con farina di fave, orzo e avena e con la meliga per l’alimentazione animale.
L’ultimo calore era sfruttato per cuocere torte salate a base di cipolle, patate e spezie o torte di mele.
Una volta giunti a casa parte del pane veniva conservato in un luogo relativamente umido, generalmente la cavë, la cantina, di modo che si conservasse più morbido. Non doveva essere una quantità eccessiva, se no sarebbe ammuffito, per cui il resto veniva sistemato sui cëvilhìe appesi al soffitto nella ciambrë du pan, per preservarlo dai topi.
Prima di tagliarlo, come ulteriore forma di rispetto, si usava fare il segno della croce con un coltello sotto la forma. L’attrezzo usato per il taglio del pane duro era il ciäpplë pan costituito da una base di legno su cui si appoggiava il pane ed alla quale era fissata una robusta e taglientissima lama. |
|
Le ricette
La cruta durà
Ingredienti: pane raffermo, latte, uova, zucchero, olio, burro.
Tagliare il pane a fette dello spessore di circa un centimetro. Ammorbidirle nel latte posto in un recipiente e passarle quindi velocemente nell’uovo sbattuto a cui sarà aggiunto lo zucchero. Soffriggerle nell’olio e burro. Sono ottime per una gustosa e nutriente merenda.
Suppë grasë
Ingredienti: pane raffermo, toma, brodo, cipolla, pepe, noce moscata, olio, burro.
Adagiare sul fondo imburrato di una teglia fette il pane tagliato a fette, cospargerle di toma a pezzettini e aggiungere le cipolle precedentemente soffritte nell’olio. Grattugiare un po’ di noce moscata e pepe. Continuare con gli strati fino ad esaurimento degli ingredienti.
Coprire con il brodo e passare in forno per dieci minuti.
La cora
Ingredienti: farina di frumento, latte, sale.
Scaldare il latte a fuoco basso e quando giunge ad ebollizione incorporare a pioggia la farina a poco a poco fino a raggiungere una crema morbida e vellutata. Salare.
Lu goffre
Ingredienti: farina di frumento, acqua, sale, lievito, trancio di lardo.
Si procede come per il pane sciogliendo il lievito in un po’ d’acqua tiepida ed aggiungendo gradualmente la fino ad ottenere una densa pastella che si lascia riposare al caldo per alcune ore. Per cucinare i goffre è indispensabile una speciale padella in ghisa quadrettata detta gufrìë, provvista di lunghi manici. Si mette sul fuoco vivo e quando è ben calda si spalmano entrambi i lati con il lardo, si versa una mestolata di pasta e si richiude facendo cuocere da una parte e dall’altra. Il gustoso e croccante goffri così ottenuto può essere accompagnato con cibi salati come il prosciutto, o spalmato con marmellate o miele. Una vera specialità è gustarlo con l’istré, il prezioso estratto di ginepro.
Lu turtiòu alvà
L’impasto è lo stesso dei goffre ma la cottura avviene in una padella di ferro imburrata ottenendo così delle specie di crepes.
Lu binhòu
Ingredienti: farina, uova, latte, sale, olio.
Sbattere le uova con il latte e aggiungere la farina a pioggia fino ad ottenere una pastella morbida. Salare. Versarne alcune cucchiaiate nell’olio bollente friggendole da entrambi i lati.
Da gustare calde accompagnate da marmellate.
Turta d’erba
Erano confezionate con la pasta del pane. Se ne stende una sfoglia in una pirofila sulla quale si distribuisce un soffritto di sedano, foglie di cavolo e prezzemolo grossolanamente tritati, al quale viene aggiunta della purea di patate. Si insaporisce con delle spezie, pepe e noce moscata.
Quindi si ricoprire con un’altra sfoglia di pasta e si inforna a 200 gradi.
Turta ‘d pun
Il procedimento è uguale alla turta d’erba. Il ripieno è costituito dalle mele sbucciate e private dei semi e fatte cuocere con dello zucchero in poca acqua.
Modi di dire:
Pan arvē diablë siu cubé |
Quando il pane in tavola è girato sottosopra c’è il diavolo sul tetto |
Lë nh’à ‘l diablë siu bareo |
C’è il diavolo nel sottotetto, quando il pane in tavola era capovolto |
Tra ‘l viòu e ‘l nuvé le nh’à dë lesà lë pé |
C’è il diavolo nel sottotetto, quando il pane in tavola era capovolto |
Anā dëmandā lë lèicë |
Chiedere l’elemosina |
Dua teta süz in cüsin fan virā in murin |
Due teste sopra un cuscino fanno girare un mulino (l’unione fa la forza)
|
U l’ā mingià sun pan blan prumìë |
Ha fatto festa in giuventù, ora è agli stenti
|
Pan sü lë tabblë l’ā pa ‘d padrun |
Pane in tavola non ha padrone
|
Pan pretà pan dunà |
Pane imprestato pane perso |
‘l fū l’ē lë dërìë tempetë |
l forno è l’ultima tempesta (quando si sbaglia a cuocere il pane si ha la disgrazia maggiore)
|
S’garā ‘l pan |
Togliersi il pane dalla bocca
|
Misurā ‘l pan |
Misurare il pane, esse parchi nel mangiare
|
1 – arcë – contenitore in legno, generalmente suddiviso in scomparti, per la conservazione di cerali, farina, fave.
2 – cartìë - unità di misura da -11,5 litri
3 – setìë - misura equivalente a 40,6 litri, cioè due emine
4 – eminë - misura 20,3 litri, equivalente a kg 20 di fave, kg 18 di frumento. kg 17 di segale, kg 15 di orzo, kg 12 di avena
5 – marmutìë – arbusto spontaneo endemico dell’Alta Valle di Susa, nome scientifico Prunus Brigantiaca, il cui frutto è una piccola prugna dorata. Dal gheriglio si estraeva un pregiato e finissimo olio da tavola.
Bibliografia
Laurent Allizond – manoscritto degli avvenimenti dal 1857 al 1897
Luigi Onorato Brun – Ou bâ de Ciabartoun - Edizioni Valados Usitanos 1986
Jacques Chatelain – Marcare il pane, decorare il burro – Priuli & Verlucca, editori 1998
Augusta Gleise Bellet – ‘l cäìë d’lä mèitrë – Alzani Editore 2000
Piero Perron - Sul ban dla Chapelle – Edizioni Valados Usitanos 1984
Gemma Rousset Ferrero – Il Villar racconta – Tipolito Melli 1986
Registro della cappella di San Claudio dal 1682 al 1759
Registro della cappella di Sant’Anna dal 1640 al 1817
Hanno collaborato: Allemand Adele; Allemand Aldo; Allemand Esterina; Marziano Di Maio; Sorella Emma; Vallory Pina.