Photos/Foto (Mostra)
1996, 1997, 1998, 1999, 2004, 2005, 2007, 2008, 2009



Mostra Fotografica 2007

Dal 24 giugno e fino al 30 novembre 2007, presso l’atrio della Parrocchia di Sant’Andrea di Millaures, è allestita una mostra fotografica dal titolo:



Lo straordinario e misterioso mondo
delle api

Viaggio attraverso i segreti dell’alveare

La mostra è a cura del
Consorzio di Sviluppo Agricolo di Millaures




Laz abëlha a Miaraura
Le api a Millaures

C'é un glossario qui e un diaporama qui
ed un documento più tecnico qui

Breve indagine sull’apicoltura nell’ex comune censuario oggi frazione di Bardonecchia.

Le api sono insetti antichissimi. Il più antico reperto fossile dell’antenata delle attuali api è stato ritrovato sulle colline vicino a Verona e risale e circa 35 milioni di anni fa. Da sempre svolgono in natura quello che è il loro principale compito: l’impollinazione. Senza questi piccoli e laboriosi insetti sparirebbero oltre la metà delle specie botaniche oggi esistenti sul pianeta.
Da sempre simbolo di fortuna e di ricchezza, modello di virtù per la laboriosità, esse sono apprezzate dall’uomo soprattutto per il loro dorato e dolce prodotto: il miele.
Pur non essendo un animale “addomesticabile” nel senso stretto del termine, l’uomo le ha sempre tenute accanto alle proprie abitazioni offrendo loro un riparo in cambio del frutto del loro lavoro, cambio non sempre vantaggioso per le api, specialmente quando non si conosceva l’uso dei melari e quindi il miele lo si raccoglieva asportando i favi del nido che costituivano le scorte invernali della famiglia condannandola a morte.
L’allevamento delle api, ben lungi dall’essere razionale, si limitava ad introdurre un nuovo sciame entro un brücé, un bugno villico, dove le api costruivano i favi senza il supporto di telaini in legno. Non si controllava l’andamento della famiglia e non si interveniva in alcun modo nel suo sviluppo. D’altra parte il peggior nemico dell’ape europea, la varroa, era ancora lungi dall’essere introdotta con l’importazione di sciami di api asiatiche. Oggi, senza l’intervento dell’apicoltore, le api non sarebbero in grado di sopravvivere a quest’acaro che ha infestato ormai gli allevamenti di tutti i continenti.
Anche se le api sono soggette a svariate malattie, l’unica che si ricordi è lë pestë, la peste, provocata da una spora e causa di ingenti danni in quanto se non si interviene in tempo porta rapidamente alla morte di tutte le famiglie dell’apiario. Quando questo succedeva i vari apicoltori si soccorrevano a vicenda e così capitò che quando l’unclë Sandrin perse tutte le sue api, ricevette in regalo da l’unclë Fredrik due sciami. Quando qualche tempo dopo fu l’unclë Fredrik a perdere tutte le api a causa della peste, l’unclë Sandrin restituì il favore e lo stesso avvenne con l’unclë Daniel du Mdau.
La raccolta di questo pregiatissimo miele a queste altitudini, allora come ora, avviene una sola volta all’anno ed il prodotto risulta di altissima qualità per la grande varietà di fiori che concorrono alla sua formazione e che sono quelli tipici di alta montagna che ammiriamo nei pascoli alpini. Essi danno luogo ad un miele multiflora di colore ambrato, di densità consistente, dalla cristallizzazione piuttosto rapida e a grana media. Il bouquet è intenso ma delicato, dal gusto pieno e morbido.

Dopo il lungo periodo invernale già nel mese di febbraio, tempo permettendo, le api approfittano delle giornate di sole tiepido per fare le loro prime uscite in cerca di polline e nettare per l’allevamento delle prime covate dell’anno. Sembra incredibile che in un paesaggio ancora invernale con temperature che scendono spesso ancora sotto zero, dove l’occhio umano non scorge segni apprezzabili dell’imminente risveglio primaverile, i nostri operosi insetti riescano a trovare fonti d’approvvigionamento. Sono luz uranhìe, i noccioli, che con i loro amenti femminili procurano il primo precoce polline indispensabile al nutrimento delle larvette. Se ne trovano in gran numero sparsi un po’ su tutto il territorio, in particolare lungo la vië du Clau, sotto lu Mdau, a Sänharpé, a lë Dré e lungo le combe dei vari rii. Pianta infestante, il nocciolo ha invaso molte aree abbandonate ma un tempo si trovava solo lungo le rive dei campi e dei prati o ai bordi delle strade.
Subito dopo i noccioli anche i fiori dei vorse, i salici, danno il loro contributo di nettare e polline in questa delicata fase dell’anno dove un ritorno improvviso del freddo può essere causa di moria della covata e delle stesse api. Queste piante trovano il loro spazio insieme con ontani ed altri arbusti nelle zone franose e umide dove costituiscono macchie dette verna. Sono diversi i toponimi che prendono il nome da queste piante: lu Verné, la Verna, lu Vërnha, ma si trovano anche in località luz Eruttau, che significa appunto zona di terreno rotto, franoso.
A fine marzo inizio aprile, nelle fasce più basse, fioriscono i primi marpusìe, i fiori del tarassaco, incessantemente frequentati non solo dalle api ma da numerosi altri insetti. Il miele di tarassaco ha un colore scuro ed un sapore amaro ma qui serve esclusivamente al nutrimento della famiglia.
Un po’ dopo incominciano la gruzella, i ribes, arbusto comunemente impiegato come barriera frangivento intorno agli orti. Se ne trovano anche alcuni esemplari inselvatichiti nei boschi. I piccoli fiori a grappolo, verdognoli e poco appariscenti sono molto apprezzati dalle api per il nettare che contengono.
A maggio iniziano a fiorire i primi fruttiferi, in particolare lu sërëzìe, i ciliegi, rappresentano un forte richiamo per le nostre amiche grazie all’alto grado di zuccheri contenuti nel nettare. Non hanno invece nessun interesse apistico la pancuta, i narcisi, che hanno il nettare troppo in profondità per essere sfruttato dalle api. 
L’unico lavoro che veniva eseguito nell’alveare verso il mese di maggio era procedere a ciatra, una pulizia degli alveari che si otteneva togliendo i favi di covata vecchi alternativamente un anno da un lato ed un anno dall’altro, conseguendo il duplice scopo di rinnovare la cera del nido e nel contempo ricavare del miele.
Il rialzo della temperatura ed il moltiplicarsi delle fioriture danno inizio all’epoca della sciamatura. Nelle giornate di sole, durante le ore più calde, un gran numero di api esce dall’arnia alzandosi contemporaneamente in volo accompagnando l’ape regina e, staccandosi dall’alveare che avevano abitato fino a poco prima, creano una nuova famiglia.
Non appena si scorgevano i primi movimenti davanti all’alveare si interveniva battendo su latte e coperchi per fare più rumore possibile poiché si riteneva che questo avrebbe fermato lo sciame nelle vicinanze impedendogli di volare lontano. Ho ancora vivo il ricordo di mia nonna quando correva in cucina lanciando l’allarme: “Lë nh’à ün esan! Lë nh’à ün esan! ” “C’è uno sciame! C’è uno sciame!” e tutti noi nipoti ci precipitavamo chi con un barattolo, chi con un coperchio su cui battere, felici dell’occasione che ci veniva offerta di fare tutto il rumore che volevamo.
Appena le api si raccoglievano sul ramo di qualche albero vicino, veniva preparato un brücé, un bugno,  nel quale si sistemavano le api e che veniva poi collocato din l’abëlhìë, nell’apiario. Per renderla maggiormente gradita, la nuova dimora veniva strofinata internamente con lë brünëttë, la salvia dei prati, perché molto visitata dalle api e perché lascia un tenue aroma che nell’intenzione dell’apicoltore avrebbe dovuto trattenere le api. Gli apiari avevano carattere stanziale, non veniva cioè praticato il nomadismo.
La specie di ape più comune era l’apis mellifica mellifica, ancora oggi largamente allevata in Francia. Le differenze che la caratterizzano dall’apis mellifica ligustica, vanto dell’apicoltura italiana, sono un colore dell’addome decisamente scuro, spesso completamente nero, maggiore irritabilità e nervosismo durante le visite, maggior propensione alla sciamatura a scapito della raccolta di miele, ma anche maggior resistenza al freddo per cui escono a bottinare con temperature più basse rispetto alla ligustica, e buone capacità di svernare con temperature molto basse.
Non mancano certo gli ibridi, soprattutto negli ultimi anni con l’incremento di sciami e regine di razza ligustica.
Il brücé, antesignano delle moderne arnie razionali, era costituito da una sezione di  tronco lunga circa un metro, completamente scavata all’interno. Venivano poi praticati dei fori contrapposti a circa tre quarti attraverso i quali venivano passati uno o due bastoni che sporgevano per circa dieci centimetri per lato. Questo consentiva non solo di avere due maniglie per il trasporto, ma costituiva un supporto per le api intorno al quale iniziare le loro costruzioni di cera. Nella parte frontale, in basso, si praticavano alcuni fori per consentire il passaggio delle nostre piccole amiche. In ultimo veniva chiuso in alto da una  sezione ricavata dal tronco stesso a mo’ di coperchio per chiudere il tutto mentre la parte inferiore, aperta, appoggiava direttamente sul ripiano dell’apiario ove veniva collocato il brücé. Per la loro costruzione si preferiva utilizzare il legno ‘d sufië, abete o ‘d pin, di pino per le loro caratteristiche di essere facilmente lavorati e perché consentivano una buona traspirazione all’interno dell’alveare. Si evitava ‘l blutun, il larice perché causa una forte condensa soprattutto in inverno, causa di focolai di virus e batteri dannosi alle api. Si usava anche la paglia in fasci strettamente intrecciati e annodati tra di loro che costituivano un buon coibente. Di forma leggermente conica se ne ricordano un buon numero al Gënè (testimonianza BA) e a l’Estadellë (test. AM).
I bugni venivano spesso tenuti al riparo dalle intemperie in costruzioni appositamente erette in pietra a secco, chiuse su tre lati, oppure in ripiani al riparo sotto le falde del tetto. Si cercava comunque di trovare posti riparati dal vento e il più possibile soleggiati.
Finita la stagione dalla sciamatura iniziava per le api il raccolto vero e proprio. Questo si avvale di una stagione abbastanza prolungata sfruttando le diverse tempistiche di fioritura alle varie altitudini anche se si devono fare i conti con i repentini cambiamenti atmosferici che caratterizzano la montagna. I prati intorno ai centri abitati ospitano moltissime specie di interesse apistico tra cui ricordiamo lë brünëttë, la salvia dei prati, e lë lëntë, la lupinella che sono anche apprezzate foraggere e la cui fioritura culmina nel mese di giugno. Più in alto, nei pascoli intorno agli alpeggi la fioritura si protrae per il mese di luglio con il sërpun, il timo serpillo, profumatissima pianta molto ricercata così come luz abasurau, le centauree, l’epilobio, e i ciardun, i cardi delle varie specie.
Sopra ai Bacini vi sono vaste zone di sangiuanin, i rododendri, che danno un ottimo miele dal colore chiaro e dalla cristallizzazione assai rapida. 
Tra gli arbusti, molto visitati sono laz ampa, i lamponi, mentre tra le piante d’alto fusto oltre ai sërzìe, i ciliegi, lu ti-iölle, i tigli con i loro profumatissimi fiori attirano il volo di questi imenotteri. La gazilha, le robinie pseudo acacia che in pianura danno abbondanti raccolti, sono invece rare a queste altitudini e non consentono un raccolto monofolora.
Nelle stagioni poco piovose, soprattutto se si ritarda il raccolto a fine agosto, capita che le api immagazzinino la melata dei larici. Questa sostanza zuccherina prodotta dagli afidi di queste piante, a differenza di quella prodotta su altre piante come l’abete o la betulla, cristallizza nel volgere di pochissimo tempo prendendo una consistenza molto dura, al punto da non poter essere sfruttata neppure dalle stesse api ed intasando le cellette dei favi che non possono più essere recuperati e causando quindi un danno notevele. Questa viene chiamata lë mannë, la manna.
Tutte le testimonianze raccolte concordano nell’asserire che per la raccolta del miele venivano utilizzati dei rudimentali melari posti sui bugni e costituiti da una cassetta vuota a cui le api accedevano tramite un semplice foro e nella quale dovevano ogni volta ricostruire i favi di cera. Bisogna quindi ritenere che, anche se privi dei telaini in legno asportabili in cui inserire i favi rendendoli mobili, era stata già da tempo adottata la tecnica inventata dal reverendo americano L. Langstroth nel 1851 salvaguardando così le famiglie ed evitando di saccheggiare le loro scorte invernali, come era avvenuto regolarmente fino a quel momento. Inoltre aveva anche il vantaggio di dare un miele migliore, più chiaro e profumato poiché quello accumulato nelle stesse cellette che hanno ospitato la covata ha un gusto marcatamente più forte ed un colore più scuro.
La smielatura avveniva nei mesi di agosto o settembre. Veniva fatto un gran fumo con un rotolo di stracci strettamente legati a cui veniva dato fuoco e sul quale si doveva continuamente soffiare per tenerlo acceso (lacrimando in abbondanza e bruciandosi spesso le dita). Fu Jozé dl’Estadellë che portò da Parigi il primo suflé, affumicatore a molla (oggi si usano quelli a soffietto) che facilitò di molto l’operazione.
Il miele non veniva estratto ma venduto nei favi che si mettevano in recipienti procurati  dall’acquirente stesso:

PV: ‘L barakin cu sërvìë për ana prënnë ‘l me dë tantë Vitorinë.... ma mamà prënìë co barakin ikì e iellu i bitavan lë sirë, lë brèicë, lu talhavan a toke e is paiavë, so pa si lu pësavan dran k’lu duna... bitavan ‘l me dëntë i disìan, u l’erë bé, i bitavan co kesëttë, co cuarën ikì sü, invece l’autrë u lh’erë brüt, përké l’autrë i prënìan plütö lë sirë, perkè i lh’erë plü ecü.

PV: Il baracchino che serviva per andare a prendere il miele da tantë Vitorinë … mia mamma prendeva quel baracchino e loro mettevano la cera, il favo lo tagliavano a pezzi e si pagava, non so se lo pesavano prima… mettevano il miele dëntë, dicevano, era bello, mettevano una cassetta sopra, invece l’altro era brutto perché prendevano piuttosto la cera, era più scuro.

In casa di mio nonno, intorno agli anni ’50 vennero commissionati dei melari da un falegname e furono adottati i telaini come supporto per i foglii cerei. Anche la smielatura si incominciò a praticarla con metodo razionale, fissando i telaini ad una centrifuga artigianale che assolse egregiamente al suo compito per moltissimi anni.
Mi ricordo ancora quando un anno mio nonno tolse i melari e, non avendo tempo di smielare immediatamente, li sistemò nella cëmbrëttë, la piccola stanza che dava accesso al balcone. Si dimenticò però la finestra aperta ed attraverso di essa le api, al cui sensibilissimo odorato non era sfuggita la dislocazione del maltolto, si introdussero nella stanzetta riempiendola con il loro ronzio e riprendendosi gran parte del bottino.
Con l’aiuto di alcuni informatori si è proceduto ad un censimento degli apiari presenti sul territorio di Miaraura ad inizio del 1900: mentre per la Gleiza si ricorda solo una postazione in località Cënërëtta, al Frëzné erano presenti più apiari oltre a quello già citato u Gënè:
 
AA: ..I lh’ierë giò mun nonu k’avìë giò bità d’abëlha…

PV: Si përké laz avìa ikì cuntrë ‘l Giozè, lì dë Maria… a Grangë Garnìë l’avìan ciacün la lu… ‘l Luì Valory  l’avìa isì, ënté lë nh’à ‘l bäcià, invece l’unclë Gëndrë laz avìa ilà,  tü vea anca ën pau ‘l postë  tzù lë vië, disìan kë certaz abëlha i lh’eran këlla dl’unclë Luì, i l’eran grisa creiu, e laz autra i lh’eran rusëtta,  blunda…. e pöi i laz avìan anca lu Makke ikì u Mdau mäi.

AA:… e pöi l’unclë Gian Mack, ilà tsu Sän Clodë… i davà, m’navisu anca mi mn’avisu kë nh’avìë lu bruciou ma mn’avisu pa ki l’avëssan laz abëlha ma nh’avìë ancarë ‘l cüberté … e u Ser i lh’erë mun nonu ikì dl’Estadellë i l’avìë fa iè proppi …

PV:… luz autre n’avìan maké për iellu, ma l’unclë Sandrin n’avìë ünë bellë filë… la lungiu dl’o , tu bruciou ‘d bo, e i lh’eran pöi abitüa, fasìan pa pöi rën a nhingün … iörë uah.. laz abëlha dran lë portë…. murdìan pa nhingün..

AA:  … C’era già mio nonno che aveva delle api…

PV:  Si, perché le aveva lì contro Giozé, lì dalla Maria… a Grangë Garnìë avevano ognuno le loro… Luì Valory le aveva in qua, dove c’è la fontana, invece l’unclë Gëndrë le aveva di là, si vede ancora un po’ il posto sotto la strada, dicevano che certe api erano quelle di l’unclë Luì, erano grigie credo, e le altre erano un po’ rosse, bionde…. e poi le avevano ancora i Mack a lu Mdau anche.

AA:  E poi l’unclë Gian Mack, là sotto San Claudio (questa postazione ha originato il toponimo di Dran laz Abëlha, davanti alle api) . Mi ricordo ancora che c’erano i bugni anche se non mi ricordo più che ci fossero le api, ma c’era ancora il tetto …. e al Ser c’era mio nonno dell’Estadellë, l’aveva proprio fatto lui …

PV: … gli altri ne avevano solo per loro, ma ’unclë Sandrin ne aveva una bella fila …. la lunghezza dell’orto, tutti bugni di legno, erano abituati, non facevamo niente a nessuno… adesso oh, le api davanti alla porta …. ma non pungevano nessuno…

La situazione attuale del patrimonio apistico sul territorio di Miaraura vede la dislocazione di quattro apiari tutti in regione Frëzné e precisamente uno nella Cumbë du Döi costituito da un paio di arnie, uno al Parcia con quattro arnie curate da un’apicoltrice, due alla borgata Ser con quattro arnie ciascuno. Tutti questi apiari hanno carattere stanziale e producono essenzialmente per il fabbisogno famigliare. Da qualche anno poi al Clo dla Rëviera sono sistemate una ventina di famiglie a scopo commerciale.
* * *
La maggior parte di coloro che possedevano un apiario producevano miele per il solo consumo famigliare in sostituzione dello zucchero, spesso troppo caro, e come integratore alimentare. Ma per chi possedeva molte famiglie come ’unclë Sandrin che ne aveva più di quindici, questo tipo di allevamento rappresentava anche un’importante fonte di reddito, non tanto per il miele, non sempre facile da vendere (la maggior parte della gente lo considerava un alimento extra, quasi un lusso comperarlo) ma per il ricavato dalla vendita degli sciami. Si sistemavano le api in cassette di legno spesso procurate dall’acquirente e si portavano fino al Puì o a Desert. Gli sciami si vendevano un tanto al chilo.  Si ricorda un acquirente piuttosto taccagno che le pagava mille lire al chilo se lo sciame era grosso, solo ottocento lire se era più piccolo sostenendo che valeva di meno.
L’uso del polline e della propoli era sconosciuto benché la propoli in particolare sia di ottima qualità in quanto quella estratta dalla resina delle conifere ha un più ampio spettro d’azione come antibiotico rispetto a quella delle betulle.
Anche la cera non era utilizzata.
Il miele per uso famigliare era quello estratto dai favi del nido in primavera, un miele scuro che non avrebbe avuto commercializzazione. Se la quantità era consistente si faceva scaldare fondendo anche la cera ottenendo il me cö, il miele cotto, che veniva conservato in vasetti.
L’uso più comune del miele era quello di dolcificare il latte e berlo molto caldo come cura contro le malattie da raffreddamento, laringiti, bronchiti ecc.
Ai bambini si davano a merenda delle belle graisa ‘d bör e me, fette di pane di segale spalmate di burro e miele. Il 15 agosto, a Notrë Dammë d’òu, si mangiava burro e miele come antipasto. Un altro piatto tipico era la polenta con il miele: la polenta veniva servita ed ognuno si aggiungeva del miele nel proprio piatto.
Personalmente ho avuto modo di apprezzare tartine di burro e miele con una piccola variante: sopra al miele ho steso un velo di listré, il famoso estratto di ginepro tipico di questa zona e garantisco un risultato veramente eccezionale.


Hanno collaborato: Adele Allemand, Aldo Allemand, Esterina Allemand; Maria Allemand, Massimino Bellet, Pina Vallory