Clelia Baccon in Bouvet, Insegnante elementare, ora in pensione. Studiosa di cultura locale e in particolare del patois di Salbertrand. Autrice di libri ed articoli sull’argomento.
Salbertrand, 6 aprile 1993, luglio 2009
"Sono nata il 10 agosto del 1929, qui a Salbertrand, la quarta di quattro sorelle. Durante il parto, la mamma venne assistita dalla
mère-sage, di antica memoria; era questa una donna esperta, dotata di mani piccole, e quindi in grado di aiutare una partoriente senza aggravarne i dolori.
Sono stata bene accetta dato che papà non si era fissato di volere il maschio; questa era un po’ un’eccezione perché, specialmente nelle campagne, c’era chi proprio sentiva la mancanza di un maschio in famiglia. Papà chiedeva soltanto se il neonato era sano, e gli bastava.
In famiglia siamo state circondate da affetto. Una famiglia contadina, col nonno e una sua sorella, dove, fin da piccoline, abbiamo cominciato ad essere utili. Papà e mamma andavano in campagna e ci portavano con sé. Vivevamo di campagna, soprattutto.
Il
nonno, Carlo Baccon, si occupava poco di campagna. Egli era il Sindaco del paese, lo è stato per lungo tempo. La popolazione lo volle
Cavaliere poiché si era prodigato, durante gli anni della Grande Guerra 1915-18, per aiutare chi aveva il marito o un figlio al fronte. Era amico fraterno del
Cavalier Humbert, sindaco di Exilles.
Nonno ci teneva molto al suo paese, per cui l’incarico di Sindaco lo impegnava; inoltre era capo-cantore in chiesa; ed era quello che dirimeva le liti in paese: una specie di giudice di pace senza titolo. Molti, non riuscendo ad accordarsi nella divisione dei beni ereditati, si rivolgevano a lui che svolgeva il compito in modo imparziale, e gratis.
Mamma era impegnatissima perché, tra l’altro, in famiglia era subentrata una disgrazia: una frattura al femore della zia. Questa era particolarmente amata dal papà che, rimasto orfano di mamma a quattro anni, era stato allevato da lei. Zia era rimasta nubile e praticamente per lui era una mamma, e lo fu sempre. Poi sopraggiunse quella frattura al femore e, in seguito, pure una polmonite: cose lunghe con i rimedi di allora. La mamma si dedicò a lei oltre a svolgere il lavoro di campagna e di casa, oltre a dedicarsi alle figlie ed accudire gli animali domestici che avevamo in casa. Non tutti gli animali, infatti, salivano all’alpeggio e noi tenevamo sempre una mucca nella stalla di casa per il latte. A volte, poi, c’erano agnellini nati tardi, che non avrebbero sopportato la monticazione. Come in tutte le famiglie avevamo inoltre il maiale e le galline. Insomma c’era parecchio da fare.
La
nonna e il
nonno materni abitavamo in un’altra casa, ma sempre in paese; anch’essi si trovavano allora in età avanzata, perché il nonno era del 1863 e la nonna del 1865, come nonno Carlo. Mamma era perciò molto impegnata.
Papà fece anche qualcos’altro, come proporre e mettersi a capo di una squadra di Compaesani per provvedere, durante l’inverno, allo sgombro della neve in ferrovia, ma l’attività principale era anche per lui quella di contadino.
La
campagna consisteva in campi e prati. Nei campi si seminavano: segale, frumento, un po’ di avena per la mula, qualche volta orzo, e patate. Si avvicendavano le semine: un anno frumento, l’anno dopo segale, poi patate; ogni tanto si lasciava il terreno a riposo. Si raccoglievano anche venti carri di segale e una decina di carri di frumento; si trebbiava in casa, nel cortile interno. Era un lavoro faticoso che ci coinvolgeva tutti. Qualcosa si vendeva, ma poco. Di solito questi cereali servivano per l’uso della famiglia. Nel pane per noi mettevamo due parti di frumento e una di segale, mentre quello per gli animali era di pura segala. Anche la
farinetta di frumento (che il mulino separava dal fior di farina) era destinata al beverone degli animali, insieme alla crusca. Il mulino (già “mulino bannale” ai tempi del Delfinato) si trova vicino alla Dora Riparia e, un tempo, sfruttava la sua acqua portatogli da una apposita gora. Nei prati al piano si tagliava il fieno due volte: a fine giugno e a fine agosto-primi settembre. In montagna c’era un solo taglio.
Noi andavamo a fienare al
Seu: una località prativa a quota 1.800 metri, confinante col
Gran Bosco. Lassù avevamo la baita con il fienile, dove riporre il fieno prima di trasferirlo al piano. Nel fienile ci dormivamo pure. Al Seu erano custodite in mandria le mucche di una parte dei Salbertrandesi; tra queste c’erano le nostre e, quando per caso si imbattevano nella mamma, muggivano. Allorché, d’autunno, andavano a recuperarle, si avviavano con passo deciso, ben sapendo che le attendeva un buon beverone di acqua e farina ed un letto di paglia nella tiepida stalla. Qui, nella stagione fredda, era la mamma ad occuparsi di loro, aiutata poi dalle mie sorelle man mano che crescevano. Io, in verità, delle mucche nella stalla mi son sempre interessata poco. Non ho imparato a mungere, ma a pascolare si: ci andavo volentieri perché mi potevo portar dietro un libro. Mi è sempre piaciuto leggere. Ricordo che già da piccolina, quando riusciva ad avere un libro tra le mani (magari lasciato da qualche villeggiante) mi incuriosiva e ci passavo dei bei momenti sopra e cercare di decifrarlo. Forse anche per questo non ho avuto difficoltà nello studio. Mi piaceva andare a scuola!
Con tutto questo, ho ripetuto anch’io la quarta elementare. Il motivo: ero ancora troppo piccola per affrontare, in bicicletta, i sei chilometri di strada che ci separa quino da Oulx, dove frequentare la classe quinta. Durante l’inverno, lungo la salita di Ponte Ventoso, il freddo intirizziva le mani ed arrossava le cosce, e una volta ad Oulx, le scuole erano lassù, in alto, nel Borgo Vecchio… In quinta ci sono andata perciò l’anno dopo, protraendo il mio corso di Elementari dal ’36 al ’42. Subito dopo, e sempre ad Oulx, mi sono iscritta all’Avviamento Agricolo: un corso di studi triennale, che però chiuse i battenti dopo soli due anni della mia frequenza. Una signora che veniva in casa nostra a comprare uova, latte, farina… (si era in tempo di guerra e c’erano molti sfollati a Salbertrand che vivevano dei nostri prodotti), mi iscrisse all’ISTITUTO VOLONTÁ, già “Scuole Riunite per Corrispondenza”. Ricevevo le dispense, me le studiavo, eseguivo i lavori e li spedivo a Roma, da dove mi ritornavano corretti. Così dal ’43 al ’45. Purtroppo però eravamo in tempo di guerra e, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, mi furono recapitate tutte le restanti dispense. L’organizzazione dell’Istituto era seria, mi scrissero infatti: «Noi non possiamo più assicurare questo servizio, lei ha tutto il materiale per prepararsi». Lessi le dispense, mi preparai ancora un po’, diedi l’esame a Susa e presi la Licenza di Avviamento Commerciale.
È anche vero che l’appetito vien mangiando, ma io l’intenzione di proseguire negli studi l’avevo sempre avuta e il mio desiderio era prendere il diploma di Maestra Elementare. Pertanto, nell’estate del ’45, andai più volte a Susa (in bicicletta perché i Partigiani avevano distrutto i ponti ferroviari) dalla prof.sa Agnes, per il latino, che non avevo ancora mai studiato prima; continuai nei mesi successivi, abitando, provvisoriamente, nei pressi di Susa. Potei così affrontare quattro anni di studio della lingua latina e sostenere nel giugno ’46 un esame integrativo presso l’Istituto “San Giuseppe” di Torino, che mi permetteva di passare alla II Magistrale. Il segreto della riuscita era anche dovuto al fatto che il latino mi piacque e da subito e l’ho fatto mio.
In quegli anni di guerra era stata aperta a Susa la succursale di un Istituto Magistrale di Torino e qui ho frequentato la seconda classe. Mi restavano ancora due anni ma la succursale fu chiusa, pertanto dovetti scegliere una scuola della città: optai per il “Domenico Berti” e lì frequentai gli ultimi due anni (facendo la spola quotidiana, in treno, tra Salbertrand e Torino: 70 chilometri ogni volta). Non fui mai rimandata, sempre promossa a giugno, e questa è anche una soddisfazione, perché allora non è che le promozioni le dessero facilmente! Studiai molto ed ebbi anche l’appoggio della mamma, poiché anche a lei sarebbe piaciuto molto studiare ma non le era stato possibile ed in questo mio studiare ritrovava se stessa. Mi diplomai maestra nel 1948, a diciannove anni.
Da allora mi sono dedicata, e per 42 anni, all’insegnamento, prima in paesini di alta montagna (allora tutti abitati), poi qui a Salbertrand capoluogo. Ho raggiunto: Sestriere villaggio, Thures e Bousson di Cesana, San Colombano di Exilles, Eclause di Salbertrand, Reno e Grange di Maffiotto in quel di Condove… Scuole pluriclassi, dove ero la sola maestra, e tutte alquanto numerose (24 alunni nella sola Eclause). Erano bambini che parlavano il
patois; o meglio: l’Occitano i primi, il Franco-provenzale quelli dei villaggi a monte di Condove. Grazie alla conoscenza del mio
patuà anche il loro - pur con le dovute varianti – mi era comprensibile. Pertanto riuscivo a capir bene quanto i bambini volevano dirmi e, soprattutto, riuscivo a farmi sempre capire da loro. Ne derivavano anche discreti lavoretti di italiano: concisi, proprio per il fatto che, non essendo padroni della lingua, gli alunni cercavano di “stringere”, di andare all’essenziale. Concisi sì, ma corretti perché a scuola l’italiano era imparato nella sua perfezione di verbi e pronomi. E poi, fuori classe, con le famiglie, parlavo anch’io il mio dialetto.
Finivo per diventare parte di quelle piccole comunità; e ci vivevo bene, perché a me è sempre piaciuto dialogare con la gente. Prendevo parte alle veglie invernali; se uccidevano il maiale mi invitavano a pranzo… e i bambini mi vedevano come maestra in classe e, fuori, come un’amica della mamma, una di loro.
Quando frequentavo io le Elementari era stato diverso: la mia Maestra (una signorina di Torino molto severa) guai se ci sentiva parlare in
patois! Lo riteneva un’offesa al Duce!. In tempo di fascismo si era obbligati ad usare l’italiano ed a dare del “VOI” alle Autorità.
Divise da “Piccole Italiane” e poi da “Giovani Italiane”, diari, cerimonie patriottiche… per le ragazze il Fascismo iniziava e finiva con la Scuola Elementare; mentre i maschi, già “Balilla” e poi “Avanguardisti” lo avrebbero finito dopo essere stati inquadrati nel corso da “Premilitare”. Le nostre donne, definite “Donne Rurali”, potevano sfoggiare, a mo’ di scialle, un fazzoletto bianco ravvivato da un fascio intrecciato a spighe di grano e fiori di campo. L’ho visto indossare in occasione della venuta del Duce a Bardonecchia.
Quel giorno eravamo andati su; c’era stata una grande riunione; noi scolari ci avevano ammassati nei pressi della colonia “Nove Maggio”. Io, bambina, ricordo solo, di quel giorno, il viaggio in treno (era per me la prima volta!), e un marciapiede, che non dovevo scendere per non finire tra il via vai di macchine e pedoni. E poi ricordo una pagnottina di pane e un pezzettino di formaggio, che ci hanno distribuito a cerimonia finita. Una pagnotta con la crosta molto nera, molto amara. Pane di guerra. Io ero abituata al mio, che era di fior di farina, e trovai cattivo questo pane! L’avvenimento, per le “Donne Rurali di Salbertrand” (invitate anch’esse a far ala al passaggio del Duce) fu l’unica occasione per sfoggiare quel fazzoletto. Anche perché, nei giorni di festa, esse preferivano indossare il costume tradizionale.
Torniamo al
patois. Esso nelle nostre famiglie resistette alla persecuzione fascista e continuò a essere parlato da grandi e piccini anche in tempo di guerra. Le cose iniziarono a cambiare nell’immediato Dopoguerra, allorché le case della ferrovia iniziarono a popolandosi di dipendenti forestieri, con famiglie al seguito; l’aumento dei mezzi di comunicazione venne a favorire l’incontro tra giovani, ompagni di scuola, colleghi di lavoro, amici, conoscenti provenienti dai luoghi più disparati, incontri che potevano sfociare anche in matrimoni. Fu allora che tra i giovani genitori e figli, tra nonni e nipotini si iniziò a dialogare in Piemontese e poi in Italiano.
Di pari passo maturava in me il convincimento che la nostra parlata occitana, ricca di vocaboli e strutturata come Lingua neolatina, racchiudente in sé, nei suoi modi di dire, nei suoi proverbi, la millenaria saggezza, la storia e la cultura della mia Gente, non doveva essere dimenticata. Fu così che, nell’anno 1986, diedi alle stampe, primo in Alta Valle, un vocabolario Italiano-Occitano salbertrandese. Mi propongo di pubblicare anche l’altra versione: quella Occitano-Italiano.
Mentre il
patois è sempre stata la Lingua parlata, per gli scritti si usò dapprima il
Latino. Fu così che il mio paese apparve ufficialmente come “SALAE BERTANI” (V; diploma imperiale dell’Imperatore Ottone III di Sassonia, datato 31/07/1001) seguito da “SALABERTANI” sulle pergamene, conti consolari, documenti cartacei dei secoli successivi.
Intanto la Storia continuava il suo corso. All’Impero Romano (successivo al Regno dei Cozi), seguivano l’Impero di Carlo Magno e gli Imperi Germanici, fautori della nascita ed affermazione di contee e marchesati; per cui l’Alta Valle della Dora Riparia divenne feudo della Contessa Adelaide di Susa (figlia di Olderico Manfredi, marchese di Torino; moglie di Oddone, figlio di Umberto Biancamano, conte della Savoia e Moriana). Ma gia alla fine del sec. XII Salabertano entrava nella sfera dei Conti d’Albon e, quindi nel Delfinato.
Facemmo parte del
Delfinato per circa seicento anni, fino al trattato di Utrecht. In questo periodo storico, gradualmente prese ad essere usata nelle trascrizioni la Lingua Francese. Tradotti in francese anche i nomi propri (per cui i cognomi: Boveti divenne Bouvet, Arnulphi divenne Arnoul, e così via), ed i toponimi, compreso Salabertani che diventò “SALBERTRAND”.
Dopo Utrecht, passata l’Alta Valle sotto l’egemonia piemontese di Casa Savoia, giuridicamente, se avevi bisogno di rivolgerti ad un tribunale non ti rivolgevi più a Grenoble ma a Susa o Torino. Gli usi ed i costumi della gente, tuttavia, rimasero ancora, e fino a metà Novecento, quelli del tempo del Delfinato: usi e costumi che, insieme al
patois univano le popolazioni montanare di entrambi i versanti alpini.
Veniamo al giorno d’oggi. La Valle è ormai inglobata nel turismo (anche se qui a Salbertrand si tratta solo di un turismo di passaggio, con un po’ di villeggiatura) mentre il lavoro di campagna, già di per sé quassù più disagiato è diventato sempre meno redditizio; difficile pertanto vivere solo di campagna. Per questo motivo i giovani hanno intrapreso altre occupazioni che, di conseguenza, hanno favorito l’emigrazione verso la città. Ne è derivata la tendenza a omogeneizzare anche gli usi ed i costumi, dilavando così il nostro essere montanari.
Io sono convinta che, nell’epoca che stiamo vivendo, salveremo la nostra etnia che ci qualifica al pari di ogni altra, solo se, pur restando partecipi del cammino della Storia, aperti a cogliere le novità del mondo che ci circonda, sapremo restare saldamente, e dignitosamente, aggrappati alle nostre radici fatte di usi, costumi, religione e lingua."