Histoires
vécues (hier)/Storie vissute (ieri)
In onore
e in memoria della maestra Augusta Gleise
17/01/1925 - 25/05/2019
Scultura realizzata da FULVI
Luigi secondo una foto della maestra
1 - La profonda trasformazione di una
frazione di Bardonecchia
nel racconto di un'insegnante
di Gianmarco Mondino
MILLAURES: una maestra, la scuola
e un modo antico

La maestra Gleise a
Thures
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Poche località
montane hanno subito, negli ultimi decenni, le
trasformazioni profonde e convulse di
Bardonecchia e delle sue frazioni. Le cartoline
d’anteguerra mostrano, intorno e al di sopra di
esse, ampi spazi liberi e soleggiati, terreni
scoperti e terrazzati, adibiti alle colture. Il
confronto con la realtà odierna, fatta di
cementificazione, di ville e di condomìni, o di
boscaglia che ha sommerso le antiche vestigia,
non potrebbe essere più netto. Oggi, ad esempio,
persino una borgata come Horres, che era stata
l’alpeggio della gente di Millaures, è sede di
villeggiatura.
Rinvenire le tracce del passato è sempre più
difficile. Tuttavia, parlando con la signora
Augusta Bellet Gleise, che per tanti anni
ha volto il ruolo di maestra a Bardonecchia e
nelle frazioni, o leggendo l’attenta ricerca
|
della Prof.ssa Daniela Garibaldo su
Millaures ho potuto rivivere, almeno con il
pensiero, il mondo di un tempo: i paesi, le comunità,
il lavoro e, naturalmente, la scuola, così lontana
dalla realtà cittadina attuale. Un mondo di cui è
importante parlare, non solo per serbarne il ricordo,
ma anche per impararne qualcosa.
Uno sguardo alla storia
La conca di
Bardonecchia, in origine, era un lago, a
quanto risulta prosciugato dai Saraceni nel X
secolo. L’antica parrocchiale del Borgo
Vecchio era appunto chiamata “S. Maria ad
lacum”. All’intorno vi convergono la Valle
Stretta, quella della Rho, i valloni del
Frejus e di Rochemolle (“Arciamurra”), nel
quale confluisce la Valfredda. La zona,
riparata dai venti di tramontana e circondata
da pendii poco acclivi, è sempre stata idonea
agli insediamenti umani. Infatti fu occupata
dai Celti fin dalla preistoria. Il primo
documento a nominare il territorio
|

Neve a Rochemolle
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di Bardonecchia, allora dipendente da Novalesa, è del
726. Viene citata dapprima come “Bardisca” o
“Bardonisca”, poi “Bardonesca” e solo nel 1365
Bardonecchia. L’origine del nome è controversa.
Secondo alcuni risale ai Longobardi, detti
semplicemente Bardi, con aggiunta del suffisso –isk
(lat. –iscus); altri la ricollegano alla radice
celtica “Bar”, indicante “rocca”, “luogo elevato o
fortificato”, come anche nel caso di Bard, Bar
Cenisio, Barbania (significato rilevabile, altresì, in
Irlanda e Galles).
Nel X sec. la zona fu occupata da Saraceni provenienti
dalla Provenza (conquistarono Novalesa nel 906), che
si stabilirono in alta valle; scacciati i quali
subentrarono al potere casate francesi. Si contesero
il territorio i conti di Savoia e quelli di Albon
(Delfinato), che prevalsero alla fine del XII sec. Nel
1349 Bardonecchia divenne feudo francese, ma già
trent’anni prima aveva ottenuto, con Beaulard,
Millaures e Rochemolle, un particolare statuto, che
concedeva a tali Comuni un’ampia autonomia, confermata
dai sovrani transalpini. È del 1343 l’ingresso nella
Repubblica degli Escartons, a cui aderivano le valli
Varaita, Chisone, Oulx, Queyras e Briançon, la quale
ospitava le assemblee dei rappresentanti di villaggio.
Una serie di autonomie e vantaggi in campo politico ed
economico rese privilegiata tale comunità rispetto a
tante altre zone alpine e rurali. Non è che il
principe del Delfinato fosse più generoso di altri:
semplicemente aveva bisogno di denaro, per cui si fece
pagare profumatamente le sue concessioni.
Il quadro, però, non sarebbe completo se non
accennassimo ad altri due importanti fattori.
Anzitutto qui siamo in territorio occitano, il che
significa l’appartenenza ad una realtà linguistica e
culturale più viva e progredita, ad es., di quella
franco-provenzale, con la possibilità di intensi
rapporti e scambi commerciali con i più sviluppati
paesi d’oltralpe. In secondo luogo la zona fu toccata
dal valdismo, che poneva tra i valori più importanti
l’istruzione popolare, grazie alla quale
l’analfabetismo fu pressoché cancellato e furono
promossi i valori morali e civili. Il mondo degli
Escartons si dissolse nel 1713 con la pace di Utrecht
(Guerra dei Trent’Anni), in virtù della quale il
confine tra Francia e Piemonte fu portato allo
spartiacque alpino. I Savoia erano autoritari,
accentratori e tassatori esosi. Si alienarono ogni
simpatia della gente locale, che continuò a
rimpiangere la Francia, alla quale fu attribuito il
primato per l’economia, il commercio, l’emigrazione
(che non ebbe certo come meta Torino), la lingua e la
cultura. Racconta la signora Gleise che, per rilevare
che un tessuto era di qualità, lo si definiva “boun
bütin de France”. Verso la gente della bassa valle
(detta, con intento dispregiativo, “lou de valloùn”)
ed i Piemontesi in generale sussisteva non poca
ostilità. Quando era all’alpeggio, la nonna materna
della signora Gleise vendeva volentieri latte e uova
ai gitanti che glielo chiedevano in italiano o in
francese, ma era assai restìa verso chi parlava il
piemontese.

Cime e guglie in Valle
Stretta
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Nel secondo
‘800 i lavori per la costruzione della
ferrovia e del tunnel del Frejus portarono
lavoro e reddito fisso ai montanari,
frenandone l’emigrazione, ed altrettanto
avvenne quando la strada ferrata entrò in
funzione. Anche il padre della signora Augusta
divenne ferroviere e si trasferì in bassa
valle e poi a Bardonecchia, salendo a
Millaures solo per aiutare i genitori, che si
occupavano ancora del bestiame. Pure il
turismo d’elite, che lasciò ville di pregio,
divenne una risorsa: per molti era più
vantaggioso vendere il latteai villeggianti ed
agli
|
esercizi pubblici, che utilizzarlo per la produzione
di burro e formaggio. Dagli anni ’60 in poi il turismo
e la speculazione edilizia hanno sconvolto l’ambiente
geografico ed antropico, tra l’altro recando con sé,
come hanno evidenziato i giornali, personaggi collusi
con organizzazioni criminose. La corsa al profitto,
allo “sviluppo” caotico, ha fatto perdere non solo
ogni etica, ma anche il buon senso. Ancora su La
Stampa del gennaio 2014 si riferisce come, pur avedo
realizzato strade e piste d’ogni tipo, nessuno si sia
curato di risolvere il problema della strettoia di
Millaures, dove le auto formano colonne chilometriche
ed ammorbanti.
Il mondo dei montanari
Se Bardonecchia fu toccata abbastanza presto dal
turismo, le frazioni mantennero fin verso la metà del
‘900 buona parte della propria fisionomia. Millaures
(Miaraura in occitano) era costituita da una serie di
frazioni sparse, ognuna con la sua cappella, spesso
adorna di pregevoli affreschi (quelli di Horres
risalgono al sec. XVI). In ogni sacro edificio era
conservata una “arci” (madia) divisa in scomparti, uno
per ogni tipo di cereale, che i fedeli recavano per la
festa patronale o in Quaresima per la Messa “pro
offerentibus”. Ad es. a Millaures il grano donato era
poi venduto per acquistare ceri ed altre
suppellettili. Gli usi religiosi mostrano l’influenza
del valdismo: nelle veglie serali non si recitava il
rosario né era consuetudine narrare vicende di masche,
che altrove spaventavano i bambini.
“Miaraura”
(nome che deriverebbe dal latino “Miratoria”,
per la posizione panoramica) si suddivideva in
borgate sparse (come il Percià, i Blanc, il
Rouchass, Gleize, Serre e così via) ed era
sede della parrocchiale di S. Andrea, che fu
rifatta nel sec. XIX, ma conserva un imponente
campanile romanico. Anche alla domenica,
all’alba, i montanari svolgevano i lavori
agricoli (“fa’ materià) e" poi andavano a
Messa, dopo la quale gli uomini erano soliti
soffermarsi a chiacchierare sul sagrato. Non
era, però, che le donne fossero emarginate. È
eloquente, al riguardo, il detto “la fënna il
a ‘l casü”, vale a dire “è la donna che ha il
mestolo”. Ogni frazione era autosufficiente,
ma talvolta capitava di unire gli sforzi, come
quando si trattò di realizzare (allorché i
lavori per la ferrovia avevano tagliato le
fonti d’acqua) la “Gran Bea”, il canale che
attingeva dal torrente di Rochemolle,
garantendo il rifornimento idrico. C’era
invece rivalità, non solo con la gente della
bassa valle,
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Scorcio invernale della
chiesa di Millaures
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ma anche fra Comuni contigui, come testimoniano i
oprannomi poco lusinghieri riservati agli abitanti:
quelli di Bardonecchia erano “lou louse” (i lupi), a
Rochemolle c’erano “lou veça” (un’erba scadente), a
Melezet “las vacchas chaudas (gli scalmanati). Quelli
di Millaures, poiché l’allevamento del maiale era
diffuso in modo generalizzato, presso tutte le
famiglie, erano “lou Gourìn”. Quando, nel 1927, le
varie comunità furono tutte accorpate sotto
Bardonecchia, differenze e rivalità si attenuarono,
fino alla omogeneizzazione dei tempi recenti, con lo
spopolamento ed il turismo.
Agricoltura ed allevamento
Ad un censimento del 1713 (proprio dopo Utrecht),
racconta la signora Gleise, risultò che l’attività
agro-pastorale era assai più redditizia che altrove,
ad es. rispetto alla bassa valle, dove prevaleva la
mezzadria. La produzione agricola era incentrata sui
cereali, soprattutto segala, ma anche orzo e grano;
quest’ultimo, però, in misura ridotta, perché i
raccolti erano assai alterni. “Chi smenë frument,
tajou s’erpent” (chi semina grano, sempre si pente),
diceva un proverbio. Per far riposare i terreni, la
segala (che non veniva “ramata”) era alternata, di
anno in anno, con l’erba medica, e non con le patate
(come avveniva altrove). A queste ultime erano
riservati campicelli ben irrigati e concimati, più
vicini al villaggio.
La maturazione dei cereali era problematica nelle
località più elevate per la rigidità del clima. A
Thures (m 1600) seminavano ad agosto la segala da
mietere nel settembre dell’anno dopo. A Rochemolle la
maturazione tardiva dei cereali, che al momento del
raccolto talora erano ancora umidi, costringeva a
farli asciugare ulteriormente sui balconi. La
battitura avveniva al chiuso, in un locale del solaio
attiguo al fienile. Quando li si portava al mulino, il
mugnaio li controllava e, se non era soddisfatto, li
stendeva ancora su un telo al sole. Per ogni sacco di
grano o segala da macinare, al mulino se ne portavano
tre: uno per la farina scelta, uno per quella più
grossolana (usata ad es. per il “pan bülì”) ed uno per
la crusca, riservata agli animali. Nei tempi e turni
prestabiliti si procedeva quindi alla cottura del
pane. Nel territorio di Millaures c’erano nove forni;
uno era stato acquistato da un nobile già nel XVI
secolo, come risulta da un documento. Il pane si
conservava sulle “cëvilhìë”, dei pali con pioli
sporgenti, appesi al soffitto, nella “chambrë dou
pan”.
Al bestiame si riservavano cure meticolose. Ognuno
possedeva dalle due alle quattro mucche, un maiale e
sette-otto pecore. Le capre erano assai rare, roba da
poveri, tenute ad esempio da chi abbisognava di un po’
di latte per i bambini. Ai bovini si davano l’erba
medica ed il fieno migliore (“fen ‘d metiu”), raccolto
nei prati più bassi (quello d’altura, più povero, era
detto “fen servaggiu”), scartando le erbe più
grossolane, come la genziana ed il carice (“kerè”). In
genere si preparava loro un pastone di fieno, erba
medica e crusca, inumiditi con acqua calda. La mamma
della signora Gleise, ogni sera, toglieva dalla
greppia gli steli più spessi, rifiutati dalle mucche,
e li dava alle pecore. Per queste ultime si usava il
secondo fieno (l’ arcòo) misto a paglia.

Scorcio di Millaures
|
Data
l’altitudine di partenza, non c’erano “muande”
o “tramüd” successivi. Da Millaures si saliva
direttamente all’alpeggio di Horres, sui
pendii prativi dello Jafferau, dove le case
costituivano un nucleo unitario, come alla
Brua, dove si recava la gente di Gleize. Vi si
restava da giugno a metà settembre. Per il
pascolo la mandria di tutto l’alpeggio era
affidata, a turno, a due uomini e due ragazzi.
Mentre gli anziani per
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occuparsi del burro e del formaggio, gli altri adulti
scendevano in paese, per lavorare nei poderi, e
risalivano alla sera. C’era poi chi, lavorando alla
ferrovia, come il padre della signora Gleise,
ritornava su a fine giornata per dare una mano. Il
gregge delle pecore, in tempi più lontani, era guidato
a turno da uno dei proprietari, ma in seguito fu
affidato ad un guardiano retribuito.
La fienagione presso le borgate iniziava a luglio,
mentre “a lë mountanhë” il bando comunale lo fissava
al 9 agosto. L’erba era abbondante e consentiva quasi
a tutti di tenere anche un mulo. Le donne passavano
con il falcetto, dove non era possibile il taglio con
la falce, ma non era una pratica sistematica come
nelle Valli di Lanzo, dove gli spazi erano assai più
ridotti. Affilare la falce era un’arte, che i padri
insegnavano ai ragazzi verso i dodici anni. Per
mantenere una mucca occorrevano 15-16 “troussë”
(carichi) di fieno. Se il raccolto era stato scarso, a
fine inverno erano guai. Un antico detto affermava: “A
Nostra Signora di febbraio, metà fieno e metà paglia”,
poiché, scarseggiando il foraggio, lo si mescolava con
quest’ultima.
Alcuni utilizzavano il latte per ricavarne formaggio e
burro (che era avvolto in foglie di genziana), ma
altri, con il turismo ormai imperante, preferivano
venderlo ai villeggianti ed agli esercizi pubblici.
Quando si trovavano all’alpeggio, molti affidavano al
conducente della decauville, operante nei lavori per
la ferrovia, delle borse piene di bottiglie, che i
parenti rimasti in paese andavano a ritirare alla
stazione d’arrivo. La signora Gleise ed il fratello
Ernesto, che al tempo erano ragazzini, da Millaures o
da Horres portavano a spalle un bidone pieno di latte
all’albergo Savoia di Bardonecchia. Spesso il padrone,
impietosito, offriva loro una fettina di torta.
La scuola di allora
Tutto il territorio degli Escartons conobbe un alto
livello di alfabetizzazione, che lo differenziava da
altre aree montane. Gli inizi di tale fenomeno si
collocano nel sec. XI, quando, dopo le invasioni
saracene, la prevostura di San Lorenzo di Oulx risorse
e tornò a svolgere il proprio ruolo culturale nelle
Alpi valsusine e nel Delfinato. I monaci istituirono
un collegio per preparare dei buoni maestri e, nel
1572, rinunciarono ad un quarto delle decime loro
dovute, purché ogni Comune della zona, oltre ad un
predicatore per la Quaresima, pagasse un maestro per
istruire i ragazzi. Così, in autunno, i sindaci
scendevano a Briançon per la Fiera Maestra, dove
assumevano gli insegnanti. Costoro, per evidenziare il
loro ruolo, portavano, infilate nel cappello, delle
piume: una se abilitati all’apprendimento di lettura e
scrittura, due se conoscevano anche il calcolo, tre
per il latino. I risultati furono tali che, divenuti
adulti, parecchi valligiani scendevano ad insegnare in
bassa valle.
All’insegnamento
elementare, compresi gli aspetti civili e
religiosi, fu attribuita importanza anche
successivamente, ed a questo contribuì la
circolazione delle idee valdesi. Le famiglie
compresero il valore dell’istruzione, per cui
non capitava, come in altre zone alpine o
rurali, che la frequenza fosse saltuaria per
la necessità di adibire i ragazzi ai mestieri
agricoli. Non che qui essi non lavorassero, ma
lo facevano prima e dopo l’orario scolastico.
Ad esempio la nonna materna della signora
Gleise, all’alpeggio, non lasciava mai
inattivi i nipoti, assegnando loro molteplici
compiti. Un dato significativo, dal punto di
vista economico e sociale, è il fatto che non
esisteva la figura dei “bocia”, i bambini che
i genitori poveri mandavano a lavorare già a
sei-sette anni sotto padrone, il quale spesso
e volentieri li maltrattava (e penso alle
memorie di tanti anziani o al libro di Nuto
Revelli “Il mondo dei vinti”). Ognuno stava
con la propria famiglia, da cui riceveva gli
insegnamenti pratici, morali e religiosi. La
nonna, mi ha detto la signora Augusta,
insisteva sulla pulizia (ad es. lavarsi bene
le mani, ma fregandole sul sapone senza
immergerlo, per
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Scorcio di
Bardonecchia. In bella evidenza i pendii
ancora ben tenuti
|
ridurne il consumo), ed ha aggiunto con orgoglio che
la bestemmia si diffuse in alta valle solo con
l’arrivo di boscaioli bergamaschi, chiamati ad
occuparsi del legname. Nell’area degli Escartons non
troviamo nemmeno l’immagine, persino stereotipata,
degli allievi che portavano a scuola, per scaldarsi,
un pezzo di legno ciascuno. Al riscaldamento delle
aule e della camera della maestra provvedeva il Comune
tramite le corvées: in un giorno prefissato gli uomini
del paese provvedevano al taglio ed alla fornitura di
legname. Parimenti esisteva un Patronato che procurava
il materiale scolastico ai meno abbienti.
Le esperienze di una maestra
Il lavoro di ferroviere aveva condotto il padre della
signora Gleise a trasferirsi via via in vari centri
della bassa valle con la famiglia, ma poi era tornata
al paese per aiutare i genitori ormai anziani. Da
Millaures, quando avevano sui cinque anni, la signora
Augusta ed il fratello Ernesto, di notte, ammiravano
in basso le luci di Bardonecchia, pensando fossero
stelle cadute dal cielo. E, quando vedevano il treno
sbucare dalla galleria di Rocca Tagliata, gridavano
festosi: “Treno, treno, portami un pezzo di pane e
cioccolata !”. Quel pane e cioccolata che compravano a
Bardonecchia, dove scendevano, magari in slittino, per
andare all’asilo e poi a scuola (in quel periodo a
Millaures era stata soppressa), con il soldino dato
dalla mamma.
Quando fu “grande”, i genitori decisero di far
proseguire gli studi alla figlia Augusta, non prima di
aver consultato i suoi fratelli maggiori, che ormai
lavoravano in Francia. Frequentò un collegio a Torino,
il cui costo era oneroso per i genitori, e si diplomò
maestra. Il suo primo incarico, nel 1945, fu a
Rochemolle, con una pluriclasse. Soggiornava lì e
tornava a casa, a piedi, solo a fine settimana. Era un
periodo difficile, verso il termine della guerra. La
scuola era stata bombardata, per cui le lezioni si
svolgevano in canonica, usando un pezzo superstite
della lavagna. Per la ricorrenza patronale di Gleise
(S. Eldrado) una sua giovane collega, che era di lì,
aveva chiesto al direttore un giorno di permesso per
partecipare alla festa. Costui non le rispose nemmeno;
tuttavia, sapendo che anche la signora Augusta era di
quei paraggi, si recò fino a Rochemolle per
controllare che non ci fosse andata di soppiatto. Ma
lei era così contenta dell’incarico appena ottenuto
che della festa non si era manco ricordata. Il
direttore ne approfittò per effettuare anche una
verifica con gli allievi e ad un bambino di seconda
fece recitare una poesia.
I tedeschi, per
garantirsi la ritirata, avevano minato la diga
di Rochemolle, dove avevano lasciato un
presidio di alpini. Quando scendeva a
Bardonecchia per commissioni, la signora
Gleise si recava dal referente locale del CLN,
il quale le affidava una lettera, da
consegnare ad uno di quei soldati, e non era
un rischio da poco. Un giorno, poi, si trovò
ad affrontare una situazione difficile. Gente
del posto aveva rubato ai tedeschi delle
patate rinsecchite, più per spregio che altro.
Questi ne pretesero la restituzione, pena una
dura rappresaglia. Cercavano un’autorità del
paese che andasse a convincere i responsabili
e, non trovando nessun altro, mandarono lei,
giovanissima. L’anno successivo ebbe
l’incarico a Cesana. Andava fino ad Oulx in
treno e poi compiva a piedi l’ultima
parte del tragitto, che non era breve.
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La maestra
Gleise in costume locale
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Ma non era solo lei a camminare fin lì. Ad esempio i
ragazzi di Fenils frequentanti la IV e la V si
facevano l’intero percorso fino a Cesana. Il 1947 fu
un periodo movimentato, poiché fu mandata prima a
Thures (dei cui abitanti ricorda la cordialità ed il
rispetto per la figura della maestra), quindi a S.
Colombano di Exilles e poi, a fine anno, a Gleise.
Finalmente, vinto il concorso, ebbe la sua cattedra
fissa. Scese a Torino, dove potè scegliere come sede
proprio Millaures, ed al ritorno ebbe la gioia di
trovare il padre ad aspettarla alla stazione e di
comunicargli la bella notizia che sarebbero tornati a
stare insieme.
Dopo il matrimonio la signora Gleise si trasferì a
Melezet e quindi, nel 1955, a Bardonecchia, dove fu
titolare di una monoclasse. L’impegno era meno gravoso
della pluiriclasse, nella quale occorreva organizzare
e sincronizzare alla perfezione il lavoro, dovendo
badare a bambini di età e livello di sviluppo assai
diversi. Ad esempio, nel famoso giorno in cui era
venuto il direttore a Rochemolle, a quelli di terza
aveva assegnato delle equivalenze, a quelli di seconda
l’apprendimento di una poesia e frattanto, sul
frammento di lavagna sopravvissuto, mostrava ai
“primini” la differenza fra c dolce e c dura. Comunque
anche la monoclasse non era uno scherzo, componendosi
di una trentina di allievi. Certi insegnanti del 2000
(magari in classi con il doppio docente !) considerano
eccessivi venti alunni e si sono lamentati per anni di
non poterli seguire bene (non parliamo di tutte le
proteste e manifestazioni degli ultimi anni!). Eppure
gli allievi della signora Gleise uscivano dalla scuola
elementare sapendo leggere, scrivere e far di conto,
cosa che attualmente, come ho sperimentato, spesso è
ben lontana dal verificarsi. Chissà! O i docenti di
allora erano dei maghi oppure per l’oggi qualcosa non
torna.
La signora
Augusta era una maestra nel contempo esigente
e comprensiva, e soprattutto giusta, che
teneva d’occhio sia la didattica sia
l’insegnamento morale e civile. In un disegno
fatto dai ragazzi di allora compare la
scritta: “I voti sono uguali per tutti”.
Tuttavia, se in classe c’erano bambini meno
dotati, oltre a seguirli ed incoraggiarli,
incitava di continuo i compagni ad aiutarli e
trattarli bene anche fuori dalla scuola. Non
era permesso in alcun modo schernire i più
deboli.
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La maestra Gleise con
una sua pluriclasse
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Proviamo a pensare a certi episodi di oggi! Quando
insegnava a S. Colombano di Exilles, aveva avuto in
classe dei bambini orfani, che vivevano con la nonna:
si trovavano in grande povertà e dovevano aiutarla nei
lavori agricoli, in particolare nella vigna. La
maestra li seguiva da vicino e lasciava correre, senza
rimproverarli, se non avevano potuto svolgere i
compiti. La nonna, pur nelle sue difficoltà, le donò,
come segno di gratitudine, una bottiglia di vino. E in
ogni modo questi ragazzi, una volta cresciuti, seppero
ben inserirsi nel mondo del lavoro.
Uno dei principali problemi didattici della signora
Gleise con i suoi allievi era il corretto
apprendimento dell’italiano. Pur parlando normalmente
il patois, ne aveva vietato l’uso in classe, per non
distoglierli. Spesso, però, i ragazzi (e lei ne
ricorda uno in particolare) finivano per adattare il
dialetto all’italiano: ad es. il passato prossimo di
finire diventava “ho iurato”, dal verbo locale “iurà”
che significa appunto “terminare”.
La signora Augusta ricorda con piacere, ma anche con
una vena di malinconia, il bel rapporto avuto con i
suoi alunni, testimoniato dalle lettere di saluto che
le scrivevano quelli di quinta alla fine del ciclo di
studi, alcune delle quali davvero commoventi. Ed è
stato bellissimo per lei ritrovarsi dopo cinquant’anni
con gli ex-allievi del suo primo anno di docenza a
Bardonecchia, nel 1955.
Questo articolo di Gianmarco
MONDINO è comparso a suo tempo sulla rivista
"Panorami" con le foto di Sandro Maggia.
Ringraziano l'autore per l'autorizzazione di
publicare.
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- Notrë Päi di Augusta
Gleise
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