Patois
Transcrizione D.
Garibaldo
ANĀ
FNEA A MIARAURA
La
fienagione a Millaures
Miaraura/Millaures
è il paese dei miei avi e, pur
essendo nata a Torino, la prima volta che mia madre mi portò
a
casa avevo solo pochi giorni e ad accogliermi trovai una bella nevicata
e larghi fiocchi candidi che si posavano sul mio volto. Mia madre dice
che continuai a dormire placidamente. Evidentemente buon sangue non
mente.
Quando qualche anno fa iniziai a raccogliere testimonianze sulla vita e
le attività passate di questo paese, più che per
un vero
e proprio interesse, lo feci per curiosità e per riscoprire
il
piacere di ritornare ai bei tempi dell’infanzia quando,
accoccolata ai
piedi di mia nonna, l’ascoltavo a bocca aperta raccontare
storie
fantastiche.
Siccome però l’appetito vien mangiando, mi resi
conto ben presto
che la curiosità iniziale si andava trasformando in una vera
e
propria passione.
Man mano che estendevo le mie ricerche attraverso la raccolta di
testimonianze, cresceva in me la consapevolezza di essere impastata con
il lavoro, la fatica, la cultura e la tradizione delle generazioni che
mi hanno preceduto, dalle quali discendo e di cui sono orgogliosa e che
le mie indagini altro non erano che un percorso personale alla ricerca
delle mie radici.
In questo senso un ringraziamento particolare a
“Segusium” che mi ha
dato l’opportunità di condividere i risultati di
questa
esperienza con quanti sono interessati agli antichi stili di vita della
montagna e a far sì che questo enorme patrimonio culturale,
che
appartiene a tutti noi, possa non andare disperso.
La quantità di informazioni che avevo registrato su cassetta
presso i collaboratori e messo su carta in lunghe e pazienti ore di
sbobinatura, aveva raggiunto un volume ragguardevole e aveva urgente
necessità di essere in qualche modo ordinata e catalogata.
Così ho pensato che la forma più logica fosse
quella di
dividerla per tipologia di lavori seguendo il naturale svolgimento
delle stagioni e cercando di ricostruire l’intero ciclo di
vita.
Ho lasciato la trascrizione delle testimonianze pressochè
integrali perché solo così sono convinta si possa
lasciare inalterato lo spirito e l’emotività di
chi racconta. La
traduzione ha seguito lo stesso metodo aggiungendo delle postille ove
modi di dire in patuà risultassero poco comprensibili
tradotti
letteralmente in italiano.
Il glossario integra le spiegazioni di quei termini spesso
intraducibili che si trovano in corsivo nel testo.
Per la grafia ho seguito le stesse regole dell’italiano con
le
eccezioni evidenziate nello specchietto per sopperire ai molti suoni
non presenti nella lingua italiana. Ho inoltre fatto riferimento alle
grammatiche di Clelia Bouvet Baccon e di Augusta Gleise Bellet con le
dovute eccezione del caso in quanto il patuà è
una lingua
a cui vanno strette le regole grammaticali e può essere
anche
molto difforme da una frazione all’altra.
Un doveroso ringraziamento va a tutte quelle persone che con pazienza e
generosità mi hanno offerto la loro collaborazione; grazie
al
loro prezioso contributo è stato possibile salvare un
pezzetto
di storia altrimenti irrimediabilmente perso. Mi sono avvalsa della
collaborazione di Aldo Allemand (A.AL) classe 1918, di sua moglie
Esterina Allemand (AE) classe 1925, di Maria Allemand (AM) del 1935,
Pina Valory del 1922, tutti ‘d
Miaraura e di Anselmo Bellet
(BA) classe
1918 del Viara, Infine un grazie particolare a mia madre, Adele
Allemand (A.AD), classe 1928 ‘d
Miaraura, vero volano delle
mie
ricerche.
|
Miaraura/Millaures, insieme a
lu Mërëzën/Melezet,
Arciamurra/Rochemolles
e Bardunèicë/
Bardonecchia,
costituiva uno dei quattro comuni
censuari della Conca fino al 1928, anno in cui furono riuniti in un
unico comune come Maximin Gendre (1855-1939) ha
scrupolosamente
annotato nel suo memoriale: “L'anno
1927 si è messo un uomo
chiamato podestà, facente funzioni di sindaco dei quattro
comuni, lasciando un sottopodestà in ogni comune,
Bardonecchia
come principale, e poi Millaures, Rochemolles e Melezet, ma alla fine,
nell'anno 1928, si è finito, il 14 novembre dello stesso
anno,
di riunire i quattro comuni in uno solo a Bardonecchia
”.
Il suo nome risale al latino “miratoria” che
significa luoghi
panoramici per l’invidiabile posizione che consente di
ammirare
l’intera conca di Bardonecchia.
Sul suo territorio si contano tredici borgate, otto delle quali
costituiscono il nucleo del Frëzné
a
circa
1390 m e sono lu Pärcià/Prerichard,
Baraban,
lu Blan/Blanc, lu Ser/Serre,
lu
Mē/Mei, l’Estadellë,
luz
Andriòu/Andrieoux
e lu
Rivau,
mentre più a monte si trovano lu Mdau/Medail
e Grangë
Garnìë/Grange
Garnier.
Al
Frëzné vi
avevano sede il comune, la parrocchia e la scuola.
Più in alto troviamo la Gleiza/Gleise
e
lu
Reo/Reuil a 1556 m e
lu Rcià/Rochas
a 1701
m. I pascoli e i prati da sfalcio di
queste borgate si estendono dal Periö’/Rio
Perilleux
fin
oltre
lë
Cotë du Bō/Costa
del Bosco. L’alpeggio
é costituito
dalle grange della Bruë/Broue
a
1760
m lungo la carrozzabile che
arriva ai Bacini.
Gli abitanti del Frëzné hanno il loro alpeggio a luz
Öru/Horres, a 1700
m. Anche i prati da sfalcio occupano
zone
diverse ed é proprio della fienagione che impegnava gli
abitanti
du Frëzné
che ci occuperemo.
I prati dove si raccoglieva l’erba migliore, nota come fën ‘d
metiu, sono quelli ubicati
nella zona più bassa, intorno
ai
centri abitati, mentre nei prati a monte dell’alpeggio cresce
un’erba più rada e fine, spesso mangiata
dalle cavallette,
nota come fën
suvaggë.
Oltre la fascia dei prati da sfalcio si trovano i pascoli estivi che si
estendono fino a 2500 m sotto la cresta du Giafrau/Jafferau
e sono
delimitati grosso modo dal Crō e
dalla
Gran Cotë o
Cotë du Bō
/Costa del Bosco a est e dal Mariòu/Rio
Malrif
a
ovest che funge
anche da confine con il comune d’Arciamurra/Rochemolles.
Durante la raccolta del fieno alcune piante devono essere scartate come
‘l nunù, la genziana maggiore, i cui steli si
devono buttare
perché troppo coriacei, come pure quelli dla curdella/l’asfodelo
e del veràirë/veratro,
quest’ultimi
perché
velenosi.
La lëntilha, una leguminosa dal forte e sgradevole odore, non
produce un buon fieno, ha un peso specifico maggiore e il contatto
prolungato può causare mal di testa.
Altra erba d’alta quota è ‘l
keré, il carice,
dalle
lunghe foglie nastriformi difficili da tagliare; i giovani
falciatori inesperti, consci di dover ancora imparare i trucchi del
mestiere, lo avvicinavano con rispetto rivolgendogli una preghiera:
|
Bungiū,
bungiū keré, i siu in sitū nuvé, lasau
talhà siù plé!
|
Buongiorno,
buongiorno carice,
sono un falciatore novello, lasciatevi tagliare per favore! (AL.A)
|
La
fienagione iniziava ai primi di luglio vicino ai centri abitati, ben
serviti da strade di accesso, lu
passòu,
mentre
per quelli a lë
muntanhë
il taglio era regolato dai Bandi Campestri che ne
sancivano l’inizio il 9 di agosto, data che col tempo venne
anticipata
al 6. La necessità di avere una data di inizio ufficiale
evitava
che si calpestasse l’erba altrui per arrivare al proprio
fondo, nel
contempo si aveva maggior possibilità di sorvegliare
affinché il vicino non tagliasse, sul confine,
più del
necessario. Unica eccezione era costituita dalle vedove a cui era
consentito iniziare un giorno prima potendo così avvalersi
dell’aiuto di qualche falciatore (in genere un parente) che
ben
difficilmente sarebbe stato disponibile il giorno seguente. I Bandi
Campestri regolavano inoltre l’uso dell’acqua del Gran Bea
per
l’irrigazione dei prati dove veniva falciato l’arcò,
il fieno di
secondo taglio.
Ogni famiglia teneva un numero di mucche in rapporto alla
quantità del fieno accumulato; negli anni di scarso raccolto
la
gente era costretta a vendere delle bestie
nell’impossibilità di
mantenerle. Si calcola che per svernare una mucca occorressero circa
15/16 trusa mentre per una pecora ne erano sufficienti tre. Uno sguardo
ansioso al fieno che si riduceva inesorabilmente di volume ed un altro
al calendario, i contadini ripetevano un proverbio che diceva:
|
A
Notrë Dammë ‘d fiurìë
metà
fnìë e metà palhìë,
ma Diù
gardë k’lë sìë, ki
biën cuntarìë
a Sän Vërantin u
l’aribërìë.
|
a
Nostra
Signora di febbraio (l’11) metà fieno e
metà paglia, ma
Dio non voglia, perché chi ha fatto bene i suoi conti
dovrebbe
arrivare fino a San Valentino (il 14) (AL.A).
|
Inoltre
durante
le
guerre il fieno veniva requisito in quantità
insieme con patate e cereali. I numerosi memoriali pervenuti fino a noi
annotano minuziosamente i fatti e l’andamento delle stagioni
come
testimonia Giuseppe Guiffre all’inizio del 1700: “Nell’anno
1711 i
francesi si sono accampati a Oulx e sono passati dal colle della Rho.
Ci hanno imposto grandi requisizioni di fieno, di paglia e di legname.
Ci hanno inoltre imposto di fare un deposito di fieno oltre il ponte di
Royeres, un deposito di paglia nei prati dei Blanc e un deposito di
legname a Oulx”
.
Laurent Allizond annota nel suo diario nell’anno 1867:
“il
22 e 23
maggio il gelo ha fatto un male considerevole al fieno e alla segala
che avevano avuto un bell’inizio, le acque erano gelate come
al mese di
gennaio”.
E ancora Maximin Gendre : “L’anno
1922 é stato molto
misero, molto poco grano e il fieno molto al di sotto della
metà, e in autunno abbiamo dovuto vendere la metà
delle
bestie per passare l’inverno a causa della grande
siccità. Gli
anni 1919 - 20 -21 siamo assediati dalle cavallette e dalle miserie
della guerra”
.
La famiglia che custodiva i tori per la monta, che dovevano servire
tutto il paese, aveva diritto a raccogliere il fieno sui Pra du
Biòu, i Prati del Toro,
se ne contavano quattro dislocati u
Bücilhìë, u
Pra du Fau, a Pra Cërìë
d’avà e a lë Clèitë
di proprietà
comunale. Di proprietà della parrocchia era invece ‘l Pra du
Curiste in
località lu
Pulittrë il cui
fieno veniva
raccolto a turno dai componenti del coro della chiesa.
In concomitanza con la fienagione c’erano la mietitura, la
trebbiatura
e i lavori dedicati all’alpeggio che consistevano nel portare
le mucche
al pascolo, mungerle e lavorare il latte. La giornata di quei pochi
mesi favorevoli ai lavori agricoli iniziava spesso prima
dell’alba e si concludeva solo la sera tardi dopo
aver accudito
le bestie e preparato gli attrezzi per il giorno successivo. Si
può facilmente immaginare la fatica massacrante a cui erano
sottoposti, ben riassunta nel detto:
|
Sèi
mèi d’üvē e
sèi mèi d’ënfē.
|
Sei
mesi
d’inverno e sei mesi
d’inferno.
|
La
preparazione alla fienagione iniziava in primavera presto con la
pulizia dei prati di modo che la lama della falce non incontrasse
ostacoli e non si rovinasse. Le donne indossavano per
l’occasione un
grembiule bianco di tela di canapa tessuta in casa, simbolo di buon
auspicio, di rinnovo e pulizia, un omaggio alla primavera che avanzava.
In questo grembiule raccoglievano le pietre e i rametti secchi, a
differenza di altri luoghi dove veniva impiegato a questo scopo un
apposito canestro (Bardunèicë,
Mërëzën).
Così ce lo racconta AD.A:
|
‘-D
primmë bunurë, apéinë
vië lë
neë, lë
s’prënìë ’l
raté, in co
la fënna i l’avìan ‘l fudī blan
‘d terë ‘d mezun, e i
l’anavan a delhurā lu pra. U ‘l
raté lë
s’defäzìan la darbuniera, lë
s’garavan luz ecoze e la
pèira. Vëntavë kë ‘l
pra rëstëssë
biën proppë për lu setū.
-Cant i
s’garavan luz ecoze
lë s’fäzìë
ünë brasà e i
s’bitavë tacà
d’ünë plantë u pé du
pra o a càirë du pra, pöi cant i
l’anavan fnea i
s’prënìë këllë
brasà d’ecoze, i
s’bitavë ëncà sü
lë trusë, lë
s’pasavë ünë cordë...
për alümā ‘l
pualë.
-Cant i lh’erë
‘l tën dë
fnea, a l’intrà ‘d
giülhé, lë
nh’avìë pöi lu setū
k’i
bitavan ‘n trën ‘l dà, i
l’ëncëplavan biën e
u lë morë din ‘l cuìë i
partìan,
ciacün lör pra e i l’anavan fnea u
lë
martlöirë e magari in tok ‘d pan e
tummë din lë
takë e i l’anriavan, ciakün lör
pra.
|
-In
primavera presto, appena andava via la neve, si prendeva il
rastrello, una volta le donne avevano il grembiule bianco di
canapa tessuta in casa, e si andava a pulire i prati. Con il rastrello
si disfacevano i mucchi di terra delle talpe, si toglievano i rami
secchi e le pietre. Il terreno doveva restare ben pulito per i
falciatori.
-Quando si toglievano i rami secchi se ne faceva una bracciata e si
posava vicino ad una pianta, ai piedi o vicino al prato, poi quando si
raccoglieva il fieno si metteva sulle trusa, si legava con una corda,
serviva per accendere la stufa.
-Quando era il momento della fienagione, all’inizio di luglio,
c’erano i
falciatori che ci davano dentro con le falci affilandole bene e con la
cote nel portacote partivano, andavano a tagliare l’erba, con
la
martlöirë e magari un pezzo di pane e toma nel
tascapane e
incominciavano, ciascuno il proprio prato.”
|
Falciare
l’erba
era
considerata un’arte e così
pure la
preparazione della falce; l’esperienza affinava
l’abilità nel
dare il giusto angolo alla lama, nel batterla ed infine
nell’affilarla
con la cote senza consumarla inutilmente. I ragazzi incominciavano a
cimentarsi in questo compito fin dall’età di
undici o dodici
anni. Il padre preparava per loro un
fucìë di
dimensioni ridotte, li aiutava a rifare il filo alla lama e insegnava
loro la giusta impostazione. Il primo colpo di falce costituiva una
vera e propria iniziazione con la quale il fanciullo era consapevole di
diventare un po’ più uomo e apprendere in fretta
la tecnica gli
consentiva di gareggiare in abilità e velocità
con gli
altri. AL.A, nel suo racconto, ben riesce a farne rivivere il ricordo:
|
-Esë
bun a ëntrincā ‘l dà…
lë nh’à ‘l
fucìë e pöi ‘l dà,
k’u po s’lesā
ëncà mèi ebē o ‘n po
mèi sarà, slon
cummë ‘l fën u l’è
gro, si lë nh’à
ëncà mèi ‘d fën
alurë u s’sarë ‘n
brizë k’u possë mordë pa tan gran;
nu, can nu chavan par
ikì tsu, k’lë
nh’avìë bramën ‘d
fën,
alurë nu sëravan tultën ‘l
dà nautrumën l’ē
tro penibblë.
-Can lë
s’ëncëplë
‘l dà alurë u
s’bittë: lë martlöirë,
lë s’bittë ‘l
fucìë parìë, pöi
lë s’markë
ëntë k’lë
nh’à ‘l tarun e ëntë
k’lë nh’à lë
puncë, u diòu esë a
cumpā, përké ‘l dà u
virë cummë in cumpā e
për sea l’ändan can lë
nh’avìë
ëncà mèi ‘d fën
alurë lë
s’fäzìë
l’ändan ëncà mèi
etré, ëncà mèi
sarà ‘l dà…
-Emurā … eh!…
kekì l’ē
‘n po persunallë, lë
nh’à
k’i moran e lë nh’à
d’autre k’i frëttan i frëttan
e i macian ‘l dà e pöi ‘l
dà n’ën talhë
pa, ikì l’ē n’abilità
persunallë, l’esperiansë
e esë bun a dunā ‘l fī sënsë maciā
ciak
càirë e k’u talhë.
-Eburësà,
ënvece kl’esë
talhà u lh’erë
maké eburësà, can tü
l’es-cianca maké
l’erbë parìë u l’ē
maké eburësà.
Cant u lh’erë biën chà di:
“Baikë,
sëmblë k’l’aië pasā u
‘l razū, u l’ē proppi razà”.
Mi mun papà më
s’dizìë tëgiū,
:“Dì!
t’l’ā pòu k’la vaccia
‘t rüzan?” e u turnavë
arèirë e mi ‘m
fäzìë ünë
raggë du diablë!
|
-Essere
capaci a dare il giusto angolo alla falce…
c’é il manico
e poi la falce che può essere lasciata più aperta
o
più chiusa, secondo come il fieno era spesso, se ce
n’è
molto allora si chiude un poco la falce che non possa mordere tanto;
noi, quando falciavamo qui sotto, dove
c’é tanto fieno,
allora chiudevamo sempre la falce, se no é troppo
faticoso.
-Quando si martella allora si mette l’incudine, si
fa perno con il
manico così, dopo si segna dove
c’é la base della
lama e dove c’é la punta,
perché la falce gira come
un compasso e per falciare l’andana deve essere a compasso,
quando
c’era più fieno allora si faceva
l’andana più stretta e
più stretta la falce.
-Rifare il filo...eh!… quello é un
affare un po’ personale,
c’é chi sa molare e c’é
l’altro che frega frega e
consuma solo la lama e poi la falce non taglia, quella
é
un’abilità personale, l’esperienza e poi
essere capaci a dare il
filo senza consumare da tutte e due i lati e fare in modo che tagli.
-Eburësà significa quando il prato invece di essere
tagliato
era solo rovinato, invece di essere tagliata l’erba
è solo
strappata, si dice eburësà. Quando era ben falciato
dicevi:
“Guarda, sembra che abbia passato un rasoio”, era
proprio ben rasato.
Mio padre mi diceva sempre : “Di! hai paura che le mucche ti
sgridino?”
e tornava indietro a falciare i ciuffi che avevo lasciato e a me faceva
una rabbia del diavolo!
|
Incominciavano
a
falciare
lungo le linee di confine prestando molta
attenzione a non tagliare sul prato del vicino e quando capitava che la
punta della falce sconfinasse, bisognava lasciare la manciata di fieno
sul posto al momento del raccolto. A questo proposito c’era
anche un
proverbio come AL.A ricorda:
|
Tsu
luz Öru lë s’puìë
giò sea ‘dran,
cëcün anavë sea cant u
vurìë, e onhi tan:
“Di! tü m’n’a pöi
prèi neh, ikiau a lë
simmë! Sun ikiau a debuenā.... pa pöi tan neh!.
Tü
cuneisa la bueina?” përké i
dizìan k’l’ē pa ‘l
dà k’robbë, l’ē ‘l
raté.
|
Nei
prati
sotto luz Öru si poteva
falciare prima, ognuno andava
quando voleva, e ogni tanto sentivi: “Di! me ne hai poi preso
neh!
Lassù in cima sul confine, non poi tanto eh! …Li
conosci i
confini?” perché dicevano che non é la
falce che ruba ma
é il rastrello.
|
Tra
i
cespugli e lungo le rive, dove gli uomini non potevano arrivare
con la falce, intervenivano le donne con il falcetto
affinché
neppure un ciuffo d’erba andasse sprecato. Possiamo rivivere
quelle
scene nelle parole di AE:
|
U
‘l
vuran i l’anavan për arbätā la brua, din lu
buesun, can
la fënna i mnìan a purtā ‘l dinā,
pöi i l’atrapavan ‘l
vuran e i l’anavan a arbätā ëntë
kë
s’puìë pa anā u ‘l
dà; la fënna i
l’avìan tëgiū ‘l vuran
ikì din lë
cëntürë du fudī ...dizìan
“Uai lë
caronhë! Lë sëmblë
k’l’aië arbätà
u lë lënghë!” Ma tutta la
fënna i
l’arbätavan... tërsì lë
campanhë i
lh’erë proppë eh..
nh’avìë pa ‘d buesun, anke
për la bestia, la sē, cant i truvavan ‘d sē, i la
tüavan,
lë sē änté k’i
restavë, lë
nh’avìë pa mé ‘d
plasë, i lh’erë tu
proppë, pok dë fā. Lë
s’arbätavë tutë,
dran k’l’amnesë lë neë
lë s’cuntinuavë a
s’arbätā, i l’anavan arbätā la
fëlha, e pöi i
l’anavan arbätā lë baucë, i
mnizìë din lu
pra pa sea, kl’erbë longë, u
l’anavan ëncà
arbätā këllë baucë ikì
për
ëmpalhā.
|
Con
il
falcetto andavano per raccogliere sulle rive, tra i cespugli,
quando le donne venivano a portare la colazione, poi prendevano il
falcetto e andavano a raccogliere dove non si poteva andare con la
falce; le donne portavano sempre il falcetto qui nella cintura del
grembiule. Quando passavano con il falcetto e lasciavano tutto pulito
si diceva “Ah! Che lazzarona! (*) Sembra che
l’abbia raccolto con la
lingua!” Le donne raccoglievano, così la campagna
era pulita,
non c’erano cespugli, anche per le vipere, quando ne
trovavano le
uccidevano, e poi dove restavano? Non c’era posto, era tutto
pulito,
poco da fare, raccoglievano tutto. Prima che cadesse la neve si
continuava a raccogliere, andavano a raccogliere le foglie, e poi
andavano a raccogliere lë
baucë, un’erba
lunga che cresceva
nei prati non falciati, andavano a raccoglierla per usarla come
lettiera delle mucche.”
(*) lett. “Ah la carogna” modo di dire di una
persona.
|
Il
fieno tagliato era lasciato a seccare alcuni giorni durante i quali
si provvedeva anche a girarlo con il manico del rastrello o con
l’apposito forcone di legno, dopo di che tutta la famiglia
collaborava
alla raccolta. AD.A:
|
L
fon
u
restavë
ikì ünë
giurnà o dua
s’lh’erë bé tën, u
s’viravë ‘d càirë
e i l’anriavë pöi tuttë
lë familhë u lu
ratiòu, la banata, i l’anriavan a ratlā, a fā
‘d brasà, i
l’etëndìan la banata e i bitavan la
brasà, dran sei
brasà tsu, pöi d’autra sèi
sü e pöi
ëncà dua o cattrë k’lë
fäzìë
dë catorzë a sëzzë
brasà. Ikì lë
s’sëravë lë trusë
pöi lë s’bitavë
lë leë e u lë miorë dran e
vië... lë
leë i l’avìë lu liun, la gamba e
trèi ban;
lë s’pasavë lë cordë
dëlvì lu ban e
pöi dëlvì lë trusë e
lë s’saravë u
la mënëvella e vië.
|
Il
fieno
rimaneva lì un giorno o due se era bel tempo, si
girava e poi incominciava tutta la famiglia con i rastrelli, le banata,
e incominciavano a rastrellare, a fare delle bracciate, distendevano le
banata e mettevano le bracciate, prima 6 bracciate sotto poi altre sei
sopra e poi ancora 2 o 4, che facevano da 14 a 16 bracciate. Si
chiudeva la trusë e si
metteva sulla slitta con la mula
davanti e
via, la slitta era composta dai liun, le gambe e tre traverse. Si
passava una corda attorno alle traverse e poi attorno alla
trusë,
si chiudeva la mënëvellë
e via.
|
Dal
6
di agosto, dunque in tutti i prati duz
Öru ferveva
un’attività frenetica e nel giro di qualche
giorno, tempo
permettendo, veniva completata la falciatura e si incominciava a
portare a valle le prime trusa. In ogni appezzamento c’era
chi
falciava, chi rigirava le andane, e le donne che salivano a mezzogiorno
a portare il pranzo. Chi aveva molti prati ingaggiava falciatori dai
paesi vicini come ci ricorda BA che arrivava du Viarā / Villard. I
falciatori che venivano per il 6 e il 7 di agosto arrivavano du Viarā,
da Bardunèicë e tanti da Biulā/Beaulard.
Erano
circa
una
ventina
e raramente si fermavano più di un giorno. BA
lavorava
sempre per Allemand Alessandro e ricorda che erano in quattro a
lavorare per lui. Davano loro da mangiare e una ricompensa in denaro.
Centinaia di trusa venivano portate a valle in quei giorni e lo
spettacolo doveva essere imponente: uomini, donne, bambini e animali
erano impegnati in una fatica straordinaria dalla quale dipendeva la
loro stessa sopravvivenza. Possiamo solo immaginare il brulichio delle
persone impegnate a rastrellare, a formare le trusa, a caricarle sulle
slitte e a trascinarle a valle su strette e ripide mulattiere spesso
esposte su precipizi tra la polvere sollevata dagli zoccoli dei muli,
lo stridore delle slitte sull’acciottolato, il profumo del
fieno che si
mescolava al sudore del mulo, sotto il sole spesso cocente, con la
paura di un improvviso temporale che avrebbe vanificato tutto il
lavoro. Più raramente si formavano dei turbilhun, dei
turbini
d’aria che potevano sollevare in aria e disperdere tutto il
fieno di un
prato in pochi istanti.
Nonostante tutto, la fienagione era vissuta come una grande festa,
un’occasione per stare con gli altri, per raccontare le
novità,
i pettegolezzi, approfittando del fatto che si lavorava tutti insieme;
i bambini erano naturalmente i più entusiasti, ma anche le
donne
ne approfittavano per concedersi qualche civetteria: era
d’uso infatti
rinnovare il grembiule e il cappello di paglia: AD.A
|
Për
anā
fnea tsubbrë luz Öru la fënna i
s’acëtavan a
lë fierë ‘l fudī e ‘l
cëpé ‘d palhë k’i
arangiavan uz in riban ‘d seë nòu
dëlvì.
|
Per
andare a far fieno uz Öru
le donne acquistavano alla fiera un
grembiule e un cappello di paglia che arricchivano con un giro di
nastro di seta nuovo.
|
Le
donne con bambini piccoli salivano uz
Öru con la culla e si
fermavano tutto il tempo necessario a fnea come ci spiega AD.A:
|
..
cant i lh’erë ‘l tën ‘d
fnea tsubbrë luz Öru,
la fënna i purtavan amū lë crusà, si
l’avìan in
pci, alurë i restavan ikiau, cummë tantë
Vitorinë i
l’à purtà amū ‘l Fredo, cant
i l’anavan a mesunā
istavà o fnea, alurë si
l’avìan ‘l pcì, i
purtavan in linsō, i grupavan ‘l linsō tacà
d’ün
fraisë e i bitavan ‘l pci ikì e u
lh’erë pa
ikibà.... e i puìan fnea trankìla...
|
..
quando
era il tempo della fienagione sopra uz
Öru, le donne
portavano su il piccolo nella culla, se avevano un bambino piccolo,
allora restavano lassù, come tantë
Vitorinë...
ha portato su Fredo.... quando si andava a mietere qua sotto o a
raccogliere il fieno, allora se avevano il piccolo, portavano un
lenzuolo, lo legavano ad un frassino e mettevano il piccolo
lì
così non era per terra... e potevano lavorare tranquille....
|
Un’altra
mënagerë,
Simona Heoud, classe 1922, affida ad una
sua poesia la nostalgia struggente del tempo della fienagione:
|
MEZUN
DUZ
ÖRU
Mezunëttë mië, mezunëttë
mië,
gëmai dlë vië
t’uriu lesà
e pür ä mën sìu anà.
Ä sìu lon ‘d tun lindā
ma mun-z iou i sun ikiau.
Mezunëttë mië
surë tü sia rëstà;
tun furné u fümmë pämé.
L’aurë pasë dran ta portë
k’i l’ē tëgiū sërà,
i parlë du tën päsà
u lë vuà ‘d tan gën,
notrë gën, k’i adusmën
i s’ën sun mèi n’anà.
Sü ma muntanhë
laz aiga i sun fréicia,
lu pra i sun vē
la flū i sun parfümà
e din ‘l sē tuplën blö
lë nh’à tan d’etera!
Adiö, ma bellë muntanhë!
Ä t’ei lesà mun cör!
|
CASA
DUZ ÖRU
Casetta mia, casetta mia,
giammai nella mia vita
t’avrei lasciata,
eppure me ne sono andata.
Sono lontana dalla tua soglia
ma i miei occhi sono lassù.
Casetta mia
sei rimasta sola;
il tuo comignolo non fuma più.
Il vento bussa alla tua porta
che rimane sempre chiusa,
parla del tempo passato
con la voce di tanta gente,
la nostra gente, che pian piano
se n’è andata.
Sulla mia montagna
l’acqua è fresca,
i prati sono verdi,
i fiori profumati
e nel cielo di un blu profondo
infinite sono le stelle!
Addio, mia bella montagna!
Ti ho lasciato il mio cuore!
|
AL.A
così ci descrive quelle giornate:
|
Lu
setū lë nh’avìë du Viarā
për ‘l sei
d’òu, pa ‘dran, dato kë dran
‘l sei d’òu i
s’puìë pa sea, pöi
apré ku matin ikì
anavan tu a sea, ke k’i lh’eran pa bun
prënìan ‘d setū, lu
fäzìan dormī, lu fäzìan mingiā
e lu dunavan
mèi cokkë ciozë... du giū lë
s’tapavë
avà tut, si lë fäzìë
bé du sei
d’òu anā dekì ‘l set o
l’öccë d’òu
lë s’talhavë dë slë
Roccë dekì u Pra
Cërìë
d’Arèirë, tu chà.
Si
fäzìë pa mové tën,
però dran ‘l sei
d’òu lë
s’puìë pa anā alurë co giū
ikì i chavan tuzë, ëfan, fënna,
omme, k’i
puië rëblā la grulla lë chavë,
s’anavë amū
dekì a lë simmë e për
Sän Lurën i
lh’erë tut avà, si bastavë pa
s’alvā a trèi-z
ura u s’alvavan a dua e dümì
ma.… apré i
l’aribavë giò
l’öccë, alürë
vëntavë pöi giò sea ‘d
matin pöi premegiū
anā fnea përké tü aribava
ënvirën ‘d
Sän Lurën, uz Öru in an nu savìan
pa
ënté bitā la trusa, ma lë
nh’avìë ‘d
sëntënìë ‘d trusa,
ikì o Gran
Bäcià
k’lë
nh’à co gran carà ikì
e pöi tsubbrë i lh’erë
tuttë in trusa, can nu
l’aribavan a lu Pra Cërìë ikiau
nuz ën tiravan
ünë për cò, lë
vëntavë la lesā
ikì, tü savìa pa
ënt’la bitā, i
s’cunesìan, la banata i sun marcà!!
Fussë nu, nu
l’arpliavan tutta avà sü lë
grangë ikì
sü ‘l Gro Clotë, nu la bitavan tutta
ikì nu, e
pöi mi sun aribà a fa trèi viagge... i
l’aribavë ikì apèinë
ver cattrë ura : “Oh,
vo a fā in viaggë!”, turnavu amū turnë a
prënnë
cattrë trusa;
D’matin, din ‘l tën
kë lë bestië
maciavë, t’anava a defā ‘d trusa,
apré, pèina
finì ‘d defā ‘d trusa nu
cërgiavan l’ane e nu l’anavan amū,
s’l’avìa ëncà
cattrë d’anā a prënnë
vëntavë anā a la prënnë e
mnì avà,
pöi partìan pöi tuzë....
pöi plü
bé i lh’erë ëncà can
tü l’anava a mesunā
‘d matin e ‘d
i
|
Dei
falciatori ce n'erano che venivano dal Villard per il sei di
agosto, non prima, dato che prima non si poteva, poi quel mattino
andavano tutti a falciare e quelli che non ce la facevano prendevano
dei falciatori, li facevano dormire, li facevano mangiare e gli davano
qualche cosa... due giorni e si buttava giù tutto, se faceva
bel
tempo dal sei di agosto al sette o l’otto si tagliava da
sulla Roccë fino a Pra Cërië
d’Arèirë, tutto
falciato.
Però prima del sei di agosto non si poteva andare,
allora quel giorno falciavano tutti, bambini, donne, uomini, tutti
quelli che erano in grado di farlo falciavano, si andava su fino in
punta, per San Lorenzo era tutto giù, e se non bastava
alzarsi
alle tre di mattino ti alzavi alle due e mezzo, dopo arrivava
l’otto
(di agosto) e allora bisognava falciare di mattino e poi nel pomeriggio
andare a raccogliere il fieno perché intorno a San Lorenzo,
uz
Öru non si sapeva dove mettere le trusa, c’erano
centinaia di
trusa, al Gran Bäcià
dove c’é
un pianoro, e poi
sopra, era tutto una trusë,
quando
arrivavamo
da Pra
Cërië, da lassù ne tiravamo giù
una per volta,
bisognava lasciarle lì, non sapevi dove metterle, le
riconoscevamo dalle banata che erano marcate!!
Fosse noi le
tiravamo tutte giù davanti alla grangia, lì sul Gran
Clotë e le mettevamo tutte lì, e io sono arrivato a
fare
tre viaggi ... intorno alle quattro dicevo: “Oh….
vado a fare un
viaggio!” poi tornavo di nuovo a prenderne altre quattro.
Alla mattina,
mentre le bestie mangiavano, andavo a disfare la trusa, poi appena
finito si caricava l’asino e andavamo su, se ne avevamo
ancora quattro
da andare a prendere, bisognava andarle a prendere e venire
giù,
più tardi partivano poi tutti .... e il più bello
era
ancora quando andavi a mietere di mattina e poi nel pomeriggio andare
su a raccogliere il fieno dopo aver pranzato, stanco, con un caldo, un
caldo… e polvere, ma facevamo poi la
“doccia” quando arrivavamo la sera
…! (ironico)
|
L’importanza
di
questo
lavoro era tale da indurre il parroco del paese,
don Brunatto, a dispensare i fedeli dal presenziare alle funzioni
domenicali un anno in cui le condizioni meteorologiche erano state
particolarmente sfavorevoli, come ricorda AE:
|
“Du
sei d’òu dekì a Notrë
Dammë si lë
nh’avìë pöi
ünë dimëngë ën
bemē, këllë l’ezistavë pa
mèi, ünë
fatigghë estrodinerë, i fniavan tuzë, i
l’anavan
tuzë cummë ‘d danà, mi savu
kë lh’erë
mèi ‘l tën du fën
istavà, ünë
smanë, i l’avìë mèi
fa movē, lë
nh’avìë mèi tut ‘d
fën än
l’èrë, lë gën i
l’avìan pa pugǘ anā a
fnea, nu sën anà a lë
mèisë, lë
nh’avìë don Brunatto e don Brunatto nuz a
dì “Siete
dispensati, arplià votrë fën,
përké
‘l tën u v’à pa
giuà”. Tan lë dimëngë
matin tu ‘l mundë l’anavë a fā
‘d matinà,
pèinë pèinë
k’l’erë giū dekì a nau
ura e dümì, s’anavë sea eh...
lë nh’à pa
‘d Bun Diö’ikì eh...
pöi premegiū këllu k’i
l’avìan brëmën ‘d
fën l’anavan mèi
ëncà n’ën fā.
|
Dal
sei di agosto fino all’Assunzione se c’era una
domenica di mezzo,
quella non esisteva. Una fatica straordinaria, tutti raccoglievano il
fieno, andavano tutti come dei dannati. So che era il tempo di
raccogliere qui sotto, aveva fatto brutto tempo, c’era tutto
il fieno
in aria, la gente non aveva potuto raccoglierlo, siamo andati a messa e
c’era don Brunatto e don Brunatto ci ha detto:
“Siete dispensati,
andate a raccogliere il vostro fieno perché il tempo non vi
ha
aiutati”. La domenica mattina tutti andavano a fare la
mattinata,
appena appena si faceva giorno fino alle nove e mezza si andava a
falciare l’erba, non c’é Buon
Dio che tenga, e al
pomeriggio quelli che avevano tanto fieno andavano poi anche a farlo.
|
ll
trasporto di tutta l’attrezzatura per raccogliere il fieno,
le lea,
le banata, i ratiòu,
era generalmente fatta a basto, solo ai
muli più recalcitranti si faceva trascinare una slitta su
cui
veniva fatto il carico. L’operazione doveva seguire un certo
ordine e
AL.A ce lo insegna:
|
Për
cërgiā ‘l mü për anā uz
Öru nu bitavan la
banata, du pariòu për càirë
grupā u la cumanda
përké ‘l ba u
l’avìë cattrë corda e i
s’mëndavan la cumanda du ba, nu grupavan du
d’ün
càirë e du dl’autrë,
pöi lë s’bitavë
ünë leë clottë u murë
d’arèirë e
apré can nu vurìan n’ën bitā,
lë
nh’avìë dua maniera
d’ën bita: këllu k’lë
s’bitavan ün’autrë u
clottë e pöi
ün’autrë ën buciun sü o
n’autrumën can nu
n’ën bitavan cattrë, nu
n’ën bitavan a fetrë,
n’ën bitavan ünë
d’ün càirë,
ünë dl’autrë,
vëntavë laz ëncastra, e
l’autrë t’lë bitavë
arversë sü e t’ën
bitava cattrë, cattrë lea e cattrë
paré ‘d
banata, pöi lë s’bitavë
ëncā ‘l culìë,
përké ‘l ba u
l’avìë ün petrà
‘dran, u pasavë l’estumà
dlë bestië.
Ün an, nu
l’avìan Franco pci, ieru
ikì ën
trën a cërgiā dran lë grangë e
nh’a ün kë
s’ē stà ikì, mi bittu
ünë leë, pöi
bittu l’autrë, pöi
l’autrë, pöi l’autrë e
kekì u m’becavë, pöi
l’ei bità du pariòu
‘d banata, l’avìu ‘l cro,
tappu ‘l cro e ié : “Ma
non ha ancora finito di mettere
roba su quel mulo? Ma lei
é matto!!” lh’ei dì
: “Il matto é lei,
perché io quando sono arrivato lassù il mulo lo
metto
all’ombra mentre io devo raccogliere il fieno e devo
prepararlo per
caricare, lui ci guarda lavorare” e magari
l’avìu giò fa
lë nö... përké
kë k’lë
fäzìë.. lë
fäzìë bramën
d’ëmbarà, ‘d
volümmë, ma i lh’erë pa
pöi..., përké la lea i
lh’eran pa pöi ‘d
grosa lea, gran pei i fäzìan pa, i
l’avìan pa in
kintà për bestië
|
Per
caricare il mulo per andare uz
Öru si mettevano le banata due
paia per parte legate con le cumanda, perché il basto aveva
quattro corde che si chiamavano le cumanda del basto e si legavano da
una parte e dall’altra, poi si metteva una slitta piatta
girata davanti
dietro e dopo, quando volevamo aggiungerne, c’erano due modi,
quelli
che ne mettevano un’altra piatta e poi dopo
un’altra al rovescio o se
no quando ne mettevamo quattro le mettevamo a fetrë (*), una
da
una parte e una dall’altra, bisognava incastrarle, e poi
un’altra
rovesciata sopra e ne mettevi quattro, quattro slitte e quattro paia di
banata, poi si metteva ancora il culìë,
perché il
basto aveva un pettorale davanti che attraversava il petto della bestia.
Un anno quando Franco era piccolo, ero lì intento a caricare
davanti alla grangia e c’é uno
che si é
seduto lì, io metto una slitta, poi metto l’altra
e poi l’altra
e un’altra ancora e quello mi guardava, poi metto due paia di
banata e
poi dopo avevo la culla, butto la culla e quello “Ma non ha
ancora
finito di mettere roba su quel mulo? Ma lei é
matto!!” gli ho
detto “il matto é lei, perché
io quando sono
arrivato lassù il mulo lo metto all’ombra mentre
io devo
raccogliere il fieno e devo prepararlo per caricare, lui ci guarda
lavorare!” e magari avevo già fatto la notte
(faceva i turni
alla centrale elettrica ndr), perché cosa faceva, faceva
soprattutto tanto volume, ma non era poi così pesante, non
erano
grosse slitte, non ce n’era un quintale per bestia.
(*) a V rovesciata, come un tetto (il fetrë
é il
colmo del tetto)
|
Quando
le lea da caricare erano tre, il carico seguiva un’altra
procedura come
ci spiega AD.A:
|
Lë
bestië i s’cërgiavë u ‘l
bā, maké ‘l bā,
pa lë culanë e tü grupavë
giò ünë
leë a la corda du bā, tü bitavë lë
leë
plattë, pöi turnavë n’ën
bitā ün’autrë
sü lë leë sü
këllë ikì mèi
drèitë parìë, pöi
tü n’ën
rvërsava ünë sü lë
sgundë, trèi,
lë s’grupavë biën, tsu lë
pansë dlë
bestië lë
s’fäzìë pasā lë
cordë e
i s’grupavan giò k’i füssan
biën solidda, k’i
l’anëssan pa arèirë e
pöi lë
s’infüstavan din la banata, ma dran kë bitā
lë
prëmierë leë lë
s’grupavë giò
ünë banatë për
càirë… a lë fin
lë s’bitavë ëncà
lë culanë dlë
bestië për mnī avà tirā la trusa,
vëntavë pa
l’esüblea këllë ikì e
lë s’anavë amū
parìë, pöi ikiau lë
s’bitavë lë
bestië tëcà
d’ünë plantë din ‘l pra,
n’otrumën i s’lesavë din
l’etablë
.
|
La
bestia si caricava con il basto, solo il basto, non il collare e
legavi già una slitta alla corda del basto, la mettevi
piatta,
poi tornavi a metterne un’altra su quella, anche dritta, poi
ne
rovesciavi una terza sulla seconda. Si legavano bene, si faceva passare
la corda sotto la pancia dell’animale
perché fossero ben
stabili, che non scivolassero indietro, poi si infilavano le banata, ma
prima di mettere la prima slitta si legavano già una banata
per
lato e alla fine si metteva ancora il collare della bestia per poter
tirare giù le trusa, non bisognava dimenticarlo, e si andava
su
così, poi lassù si attaccava la bestia a una
pianta o
altrimenti si lasciava nella stalla.
|
Quando
i prati si trovavano su pendii particolarmente ripidi e si
doveva risalire con il fieno, le trusa venivano caricate sul basto e
perciò si facevano più piccole. AL.A e AE:
|
AL.A:
Ünë trusë ‘d fën i
lh’erë pöi
siù sën kilò o pa
muntüë, këlla duz
Öru, këlla ikì nu la cërgiavan
sla lea;
këlla kë nu cërgiavan a ba nau,
këlla ikì
vëntavë la fa pcitta,
përké
vëntavë la tapā amū siù bà,
cant i l’anavan
ikiavà tsu, për muntā i la cërgiavan tutta
a ba,
fäzìan ‘d trusa, ënvece
‘d fa catorzë
brasà, duzzë brasà,
s’n’ën bitavan maké
öccë o dē si lh’eran brasà
‘n po plü pcitta,
ké oh, lë vëntavë la
cërgiā siù
l’ane, ün d’ün
càirë e l’autrë
dl’autrë
lë vëntavë lë tapā amū sü
lë bestië
eh...
AE: … e cërgiā i
lh’erë pa
fasìlë, i lh’eran la
mèima banata, këstiun i restavan...
ansì, si
lh’erë pa tan dürë, lë
trusë, i
rëstavë ëncà mèi
siù ba, i
turnavë pa nhankë tan arèirë,
përké can nu muntavan amū
ikì... mun
papà i fäzìë virā lë
trusë e pöi
nu fäzìë muntā sü për
znhacā e fā ‘l
postë e lë trusë
s’ëncastravë biën,
apré ié i sëravë u la dua corda
e lë
trusë i rëstavë biën.
AL.A: Però
vëntavë tëgiu
lë tënì
ën bìlikë, si tü
l’avìë inë
bravë bestië..., iellu i l’avìan
‘l Nini k’i
lh’erë cummë ünë tota, i
curìë… i
purtavë kla trusa ...
|
AL.A:
Una trusë di fieno era
sui cento chili, quelle duz
Öru
che caricavamo sulle slitte, perchè quelle che caricavamo
sul
basto no, quelle bisognava farle più piccole,
perché
bisognava buttarle su sul basto, quando andavamo là sotto,
per
salire le caricavamo tutte sul basto, facevamo delle trusa, invece di
quattordici o dodici bracciate se ne mettevano solo otto, o dieci se
erano bracciate più piccole, che oh, bisognava caricarle
sull’asino, uno da una parte e l’altro
dall’altra bisognava buttarle su
sulla bestia.
AE: …e caricarle non era facile... erano le stesse banata,
solo che
rimanevano… così, se non era tanto dura la trusë restava
meglio sul basto, non tornava tanto indietro, perché quando
salivamo su di lì mio papà ci faceva girare la trusë sottosopra e ci faceva
salire sopra per schiacciarla bene
e fare del
vuoto così si incastrava bene, dopo chiudeva le due corde e
la trusë restava
fissa.
AL.A: Però bisognava sempre tenerla in bilico, se avevi una
brava bestia..., loro avevano Nini, che era come una signorina,
correva... portava quelle trusë....
|
Quando
invece si dovevano tirare giù le trusa da un pendio
particolarmente ripido come lë
Dré, si tiravano le
slitte a
mano. Ancora AL.A ed AE:
|
AE:
‘l
darìë co kë nu sën anà
fnea a
lë Dré, sëré du
sincantëcattrë,
sincantësink, ma ünë cërū,
ünë cërū,
tremendo i lh’erë, nuz avën
scapà ‘d disperasiun,
nh’avìë ëncarë
ünë linsurà,
n’avën fā ünë
cüccë, nu l’avën
lesà ikiau, i l’è
ëncà ikiau iöirë,
nh’avìë ünë
cërū, ikiau tü lh’era
pëndurà, in suré pican, ma in
suré
pican...
AL.A: Si përké
dësandë i
davà për lu
Crō i lh’erë pa pöi tan… u la
trusa ...
vëntavë la tirā, ‘l
prumìë an k’lh’erë
iellë i lh’ei dunà ‘l vī,
përké mi n’ën
bitavu dua trusa e i lh’ei dì “Can...
pasà ikì,
ënt’lh’erë,
lèisë anā, tënte pa,
lèisë maké anā” iellë
na, i l’ē ità
siù liun iellë, për dirë
‘d tënì.
Ohp! pasà dl’autrë
càirë din lu buesun, i
lh’erë tuttë esgrafinhà,
tuttë...
pënsë…, ma lèisë anā,
lèisë
maké itā, ma iellë ünë
fiffë
nherë... ikì i l’ē tut notrë eh,
ün an tiravan i
sevé dëkì u Crō, iellu
n’ën tiravan
avà ünë për
ünë, iellë e sun
papà, e mi n’ën bitavu dua e pöi
nuz aribavan
avà n’avìan giò can
‘d trusa e i l’è
dré, lë vëntavë esë
ën pòu... e
pöi n’ën pasavan i sevé
‘tsubbrë la grangia ‘d
Grangë Garnìë, in an, e pöi nu
mnian a
prënnë lë vië
isì…
in an pasavan ‘tsu la
grangia, k’i l’avìan ‘l
blà, nh’avìë ‘d
blà tsu, përké lë
nh’avìë tut
‘d cian, alurë ün an la tiravan
isevé ünë
për co, e l’autrë an
d’apré nu pasavan avà u
fū... tan dran la porta nu lesavan pa pasā, i lh’erë
pa ‘l
pasaggë, nhënca u
lë
bestië
vuantë
i
t’lesavan
pa pasā,
ün an düvìan pasā u la lea u
lë
bestië cërgià, e
nh’avìë këllë
tèrë, i l’avìan
travalhà, e ‘d co la bestia i
truvavan këllë tèrë
ikì magari i
s’cugiavan, nu lh’eran pasà
ilevé për lë
vië pöi nu muntën ëntrë
‘l fū... niente da
fare, o per carità! U l’unclë
Luì Valori e
tantë Rosinë si tü
l’avìa pa ‘l dré
tü pasava pa...
|
AE:
L’ultima volta che siamo andati a raccogliere il fieno a lë
Dré, sarà stato nel cinquantaquattro,
cinquantacinque, un
caldo, un caldo tremendo e siamo scappati dalla disperazione,
c’era
ancora una linsurà ne abbiamo fatto un mucchio e
l’abbiamo
lasciato lassù ed é ancora lassù
adesso. C’era un
caldo! Lassù eri come appeso, un sole a picco...
AL.A: Perché scendere giù per il Crō non era poi
tanto
facile... con le trusa... bisognava tirarle a mano. Il primo anno che
c’era lei (Esterina) le ho dato il giro, perché
mettevamo due
trusa e le ho detto “Quando passiamo in quel punto lascia
andare, non
tentare di tenere, lascia solo andare”, ma lei no, lei
é
salita sul pattino della slitta, per fare in modo da tenere e ohp!
É passata dall’altra parte in mezzo ai
cespugli, era tutta
graffiata, tutta ... pensa un po’... ma lascia andare, lascia
solo
stare, ma lei una fifa nera ... lì é
tutto nostro e
ne tiravamo in qua fino al Crō,...
loro
ne
tiravano giù una
per
volta, lei e suo padre, io ne mettevo due e poi arrivavamo
giù e
avevamo già le altre, ed era poi diritto, bisognava essere
abili... e poi passavamo in qua sopra le Grange
Garnìë,
un
anno, e poi venivamo a prendere la via in qua, e un anno passavamo
sotto le grange, quando c’era la segala seminata,
c’era tutta la segala
lì sotto, erano tutti campi, allora un anno si tiravano in
qua
una per volta sopra le grange e l’anno dopo (*) passavamo al
forno,
tanto davanti alle porte non ci lasciavano passare, non c’era
passaggio, nemmeno con il mulo scarico ti lasciavano passare,
un anno
dovevamo passare con le slitte e il mulo carico e c’era
quella terra,
avevano pulito i campi e alle volte il mulo, quando trovava quella
terra magari ci si rotolava sopra, ed eravamo passati in là
per
la via e poi saremmo saliti tra il forno e... ma niente da fare, oh per
carità! Con l’unclë
Valori e tantë
Rosinë,
se non
avevi il diritto non passavi.
(*) La segala era coltivata ad anni alterni: sui campi a garau, dove
cioè dovevano praticare ogni anno la stessa coltura, si
poteva
passare con il mulo e le slitte durante l’anno di riposo.
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Il
trasporto da uz Öru fino
a casa si effettuava facendo dei
treni
di tre o quattro slitte, una legata all’altra con i garoze.
La prima
era sempre la slitta più robusta,
perché doveva
reggere lo sforzo maggiore dovendo trainare le altre. Man mano che si
usuravano, quando erano diventate dei viurun, cioé delle
vecchie
slitte cigolanti, venivano attaccate per ultime. Inoltre
l’ultima
trusë non veniva legata alla slitta in quanto più a
rischio
di ribaltamento nelle curve, nel qual caso non avrebbe coinvolto anche
le altre.
Mi ricordo ancora quando, da bambina, per scendere lungo la ripida
mulattiera, mio nonno mi sistemava in cima alla trusë e
appollaiata là in cima, reggendomi forte alle corde delle
banata
con il fieno che mi bucava la pelle, spettatrice privilegiata, potevo
osservare a mio agio quanto avveniva intorno a me. Ricordo lo sforzo
del mulo nei tratti più pianeggianti, con la testa bassa e
il
collo tutto proteso in avanti, e la fatica di mio nonno quando, nei
tratti più ripidi e nelle curve, doveva tenere con forza le
trusa perché non prendessero l’abbrivio o non si
rovesciassero.
AD.A ricorda che sua madre dalle baite l’accompagnava un
tratto per
aiutarla a superare le difficili e ripide curve dla Luziera, per poi
risalire all’alpeggio e prendersi cura delle mucche.
|
-ALA:
Duz Öru mi n’ën purtavu giò
avà
cattrë trusa, ma nurmëlmën lë
s’mnìë u
trèi. L’ei ësaià dë
mnì avà in co
u sink, sun aribà a mezun l’ën
avìu maké
plü k’cattrë, din lë
cumbë ‘d
Sänt’Ännë lë
dërierë, i l’ē pasà
avà din lë cumbë, l’ei
pa dì rën a
mun papà, sun anà avà a
prënnë la banata
e ‘l fën l’ei lesà
ikì, d’espërimën
kë... si mun papà savìë
k’i l’avìu
pikëtà ünë trusë u
m’fäzìë
lu cumplimën...
-Për cërgia lë
trusë i
s’bitavë ‘d flan
pöi lë s’bitavë lë
leë për
parìë e pöi apré lë
s’viravë.
Pöi vëntavë
pumea lë trusë
përké ‘l fën
lë s’përdessë pa
për la via.
-Duz Öru la trusa i
s’lësavan u
Cumbaré e pöi la
tiravan isevé ünë për
co, i s’detaciavan lu
garoze e pöi ünë për co,
tü aribava din
lë grangë, tü dresava la trusa laz
üna cuntrë
laz autra, përké pughëssa
rëstā tutta,
tü garava lë leë e tü lë
purtavë dran
lë portë.
-Ënviran dla
sèi-z
ura, parìë,
sèi-z e
dümì, alurë lë
nh’avìë magari sink u
sei k’anavan avà, si
nh’avìë ün kë
crëpavë in garò o kë
krëpavë
ünë
sērë, ‘l
blucavë tut
‘l trafik, pa rën a
fā, pöi apré alurë: “Di!
Tü l’a in garò?
Lë nh’à cocün k’i
l’a in garò?” Mi
l’avìu tëgiū ‘d garoze
siù ba e alurë “Uai,
uai, si l’ē maké in garò lë
vèi!” e si l’ē
lë leë e beh, nu rëvìën
lë trusë,
nuz alierën ünë trusë
maké për pughei
anā, përké si lë leë i
lh’erë ruttë i
lh’erë ruttë, vëntavë
l’alerā, lë
revìa, për pughei pasā
.
-‘l tën kë
tü bitava depën
lë bestië
kë nh’avìë, si nu
l’avìan pa ‘d rëncuntre,
përké can tü l’anava amū
l’apremegiū si
nh’avìë giò kë
mnìan avà i
lh’erë ünë granë
përké tü
l’aribava ikì u
Drügìë vëntavë becā
si nh’avìë pa k’aribavan,
ikì i lh’erë
etré …..
-AD.A: Për mnì
avà duz Öru
lë s’bitavë
trèi trusa, lë
nh’avìë këllu
k’ën
bitavan cattrë, lë
s’fäzìë ‘l tren
për
purtā avà la trusa u lë bestië dran e
vië,
lë s’fäzìë la
devirà, ‘d co lë
nh’avìë ün garò
k’sutavë alurë
lë nh’avìë
l’autrë ‘d rizervë siù
‘l
bā dlë bestië, u
s’ciängiavë e vië.
-Din la devirà dla
Luziera, u Gro Mū e u Pci Mū, si u
lh’eran
ën du, ün i mnavë lë
bestië, lë
miorë, e l’autrë u
s’tënìë a
càirë dlë prumierë trusë
për lë
ghidā e l’ärtënī. Can lë
nh’avìë ün
suré u l’artënìë
lë trusë ën
tënën l’etaccë për ghidā
lë miorë k’i
savìë giò
ënté k’pasā, pa
prënnë la devirà tro largia. Can la trusa
i
curìan trò, lë
nh’avìë mèi
lë bestië
k’l’artënìë u
‘l
dërèirë.
-Cant i l’aribavan a
lë mezun, ünë
apré
l’autrë, nu isì u Ser nu lesavan la trusa
ilà tsu ‘l
Mē, nu n’ën fäzìan
maké tirā ünë
për co përké i lh’erë
plütò clot
alürë lë s’n’ën
bitavë giò
ünë din lë grangë e pöi nu
turnavan
ilevé a prënnë laz autra
ünë apré
l’autrë... apré lë
s’bitavë lë bestië
din l’etablë e d’nö u
d’matin bunurë lë
s’anavë defā... mi e
mun
papà lë
s’defäzìë la trusa e i
s’tapavan avà din
lë fënherë. Pöi lë
s’turnavë a grupā la
banata e i lh’eran giò turnë presta
për l’otman.
|
-ALA: Duz Öru io portavo
sempre giù quattro trusa, ma
normalmente
se ne portavano tre. Ho provato a venire giù una volta con
cinque, ma arrivato a casa ne avevo solo più quattro,
l’ultima
nella comba di Sant’Anna é volata giù,
non ho detto nulla
a mio padre, sono sceso a prendere le banata e il fieno l’ho
lasciato
lì, esperimenti che... se mio padre avesse saputo che avevo
fatto precipitare una trusë mi avrebbe fatto i complimenti....
-Per caricare una trusë
si metteva sul fianco e poi si metteva
la
slitta contro e si girava.
Poi bisognava togliere con il rastrello il fieno in eccesso
perché non si perdesse per la strada.
-Duz Öru le trusa
si
lasciavano lì al Cumbaré
e poi
si tiravano in qua una per volta, si staccavano i garoze e una per
volta arrivavi nella grangia e le drizzavi le une contro le altre,
perché potessero restarci tutte, toglievi la slitta e la
portavi
davanti alla porta.
-Intorno alle sei di sera, sei e mezza, allora c’era
già qualcuno
che iniziava a scendere, se ce n’era uno che rompeva un
garò o
una sella, bloccava il traffico, niente da fare, poi dopo allora
chiedeva “Di, hai un garò?
C’é
qualcuno
che ha un garò?
“
io avevo sempre dei garoze sul basto e
allora “ Si, si,
se é solo un garò
va bene!” e se era la
slitta, beh, la
tiravamo da parte, la scartavamo di fianco, solo per poter passare,
perché se la slitta era rotta non si poteva fare nulla, la
scartavamo per poter passare.
-Il tempo che impiegavi dipendeva dalla bestia che c’era, se
non
incrociavi nessuno, se non avevi problemi... perché quando
andavi su nel pomeriggio, se c’erano già quelli
che venivano
giù era una grana perché tu arrivavi al Drügìë
bisognava guardare che non
arrivasse nessuno,
lì era stretto …
-AD.A: Per venire giù duz’Öru
si legavano tre
trusa, c’erano di
quelli che ne mettevano quattro, si faceva un treno, così si
portavano giù le trusa con la bestia davanti e via, si
facevano
le curve, ogni tanto c’era un tirante che saltava e allora
bisognava
avere l’altro di riserva sul basto della mula, si cambiava e
via.
Nelle curve dla Luziera, al Gro Mū
e al Pci Mū, se eravamo in
due uno
teneva la bestia, la mula, e l’altro si teneva a lato della
prima
trusë per guidarla e trattenerla. Quando era uno solo
tratteneva
la trusë tenendo la briglia per guidare la mula che sapeva
già dove passare, non bisognava prendere le curve troppo
larghe.
Se le trusa correvano troppo c’era anche la bestia che la
tratteneva
con il posteriore.
-Quando si arrivava a casa noi qui al Ser
le lasciavamo sotto al i, si
lasciavano le trusa e se ne faceva tirare solo una per volta
perché era piuttosto in piano, allora se ne metteva
già
una nella grangia e poi si tornava in là a prendere le
altre,
una dopo l’altra, dopo si metteva la bestia nella stalla e la
sera o di
mattina presto io e mio papà andavamo a disfare le trusa e
le
buttavamo giù nel fienile. Poi si ricomponevano nuovamente
le
banata ed erano pronte per il giorno dopo.
|
Tutto
il fieno accumulato duramente da tutta la famiglia nel breve
periodo estivo, veniva poi distribuito alle bestie in razioni
giornaliere durante l’inverno, in genere erano le donne che
attendevano
a questo compito:
|
-AD.A:
Din l’ità i s’bitavë
tuttë lë familhë
a arplea ‘l fën, e pöi din
l’üvē ünë tokë
d’ünë fënnë i
tiravë avà tut ‘l
fën, i cüravë lë
fënherë, ün giū
apré l’autrë, dunā maciā la
bestia. I lh’eran
tultën la fënna, i l’anavan giò
fa lu bueriòu
‘d matin pöi la linsurà, i
fäzìan mèi la
linsurà, ‘l bueré
l’è lë pursiun ‘d fën
k’lë s’dunavë a lë
vaccë. Ciakkë vaccë i
l’avìë sun bueré. Për
fa ‘l bueré
vëntavë ‘l lìa, lë
nh’avìë ‘l lian,
‘l lian i lh’erë dua pinhà
‘d palhë ‘d blà
tultën, palhë longë, pöi
lë s’grupavë,
n’otrumën u s’tursìë
ünë pinhà din
l’autrë pöi tü
l’etëndìa ikì e
tü bitavë tun fën din, tü
‘l grupava, e ikì
u lh’erë ‘l bueré .
-AE: Din
l’üvē
la fënna i tiravan
avà tut ‘l
fën, tu lu matin, e prënìan pöi
‘d
fré anā a lë grangë,
l’aprëstā e tut,
lë nh’avìë ‘d
prënnë ‘d fré
tëriblë, fā in bueré, pöi
n’ën fā in
autrë, pöi ün autrë, pöi
vëntavë
aprëstā lë linsurà, pöi
lë
nh’avìë kla mezun tutta
eparnà, tutta decuatà
‘dran, ‘d co lë
nh’avìë ‘l runflë,
nh’avìë ëncā
ünë brizë ‘d neë
sü, ‘d giarà.
I l’avìan ‘d
vaccia slon ‘l
fën k’i l’avìan, lë
nh’avìë pa nhëngün
k’l’aciatavë ‘l fën,
alurë i tënìan ‘d bestia slon
‘l fën k’i
l’avìan...
-AL.A :Nurmëlman për
evernā
ünë
vaccë, i parlavan ‘d
set trusa për ünë vaccë ma i
bastavan pru pa...
dizìan set trusa ma vëntavë k’i
fussan giò ‘d
bella trusa, set i bastavan pa ‘d sëgü, i
lh’erë ‘l
minimo, i sörtìan ‘d primmë
k’i lh’eran màigra
cummë ‘d.... , vëntë
vèi ‘l bueré k’i
fäzìan, mi cant anavu fā lu bueriòu ma
mamà
dizìë ‘giu “Oh ma tü
fa ‘d bueriòu kë
lë nh’à pa muìën
d’lu tapā slë
crusòurë!!” lë
crusòurë.. lë
nh’avìë la crëppia
alurë lë
fäzìë ünë ciozë
sü e ünë
ciozë
tsubbrë,
kënkì i
lh’erë lë
crusòurë, nh’avìë
ün përtü k’i
bitavan l’etaccë, alurë mun
bueré lë
vëntavë k’u
fëghëssë ‘l vī ... mi
fäzìu pa tan economìë ...
-Lë bëcësà i
s’fäzìë u ‘l
pusìë, l’arcò, laz
urëlha d’ane, la fëlha
d’ungla, oh! Ikì
fäzìë ‘d là
...(ironico) u lh’erë ün
nütrimën special,
epürë ma nona i l’avìë
këllë
baciasà… i lh’eran ubligià a
s’mingiā, i l’avìan
pa d’autrë...
Për la fea i
parlavan
‘d trèi trusa, ma a
la fea i
fäzìan maciā ‘n
po’d’erbë ‘d tartiflë,
fëlha
du fraisë, i la tnian aleggra la fea ... (ironico)
oh a la
fea dunavan pa trò... i la tnian proppi aleggra aleggra la
fea
oh ia ahi ... lë nh’avìë
‘d co k’i përdìan
lë lanë, lë feë i l’ē
ità ‘giù ‘n po
maltratà, pèina
nh’avìë ün
bücé d’erbë ‘d
primmë, vië la fea,
alurë ikì la cumansavan pöi, lë
feë i
l’avìë lë campanhë
d’ità bundrën
plü longë përké i dizan cant
‘l
gruzlìë u brottë lë feë
mingiottë, cant
‘l gruzlìë u flürì
lë feë i
s’ciavì.
|
-AD
A.: Durante l’estate si metteva tutta la famiglia a raccogliere
il fieno e
poi d’inverno una donnina sola tirava giù tutto il
fieno,
svuotava il fienile un giorno dopo l’altro a dar da mangiare
alle
bestie. Erano sempre le donne, andavano a preparare le porzioni la
mattina e le sistemavano nei lenzuoli, ogni mucca aveva la sua
porzione. Per fare la porzione bisognava legare la bracciata con il
lian, che era costituito da due pugnate di paglia di segala, paglia
lunga, si legava o altrimenti si torceva una pugnata
nell’altra, si
stendeva, si metteva il fieno sopra e si legava: quella era la porzione.
-AE: Durante l’inverno le donne tiravano giù tutto
il fieno,
tutte le
mattine, e ne prendevano poi di freddo andare alla grangia, preparare
tutto, c’era da prendere del freddo terribile, fare una
porzione, poi
un’altra, poi bisognava preparare le linsurà, e
poi c’erano
quelle case che avevano delle aperture nel fienile, e a volte
c’era il
vento, c’era ancora un po’ di neve sopra, del gelo.
Avevano tante
mucche secondo il fieno che avevano, non c’era nessuno che
comperava il
fieno, allora tenevano tante bestie secondo il fieno che avevano....
-AL. A: Normalmente per svernare una mucca parlavano di sette trusa per
una
mucca, ma non bastava... dicevano sette trusa ma bisognava
già
che fossero belle grosse, sette non bastavano di sicuro, era il minimo,
uscivano in primavera che erano magre come...(*) bisogna vedere le
porzioni che facevano, io quando andavo a fare le porzioni mia madre mi
diceva: “Oh ma fai di quelle porzioni che non
c’é modo di
buttarle oltre la crusòurë!”
quelle
traverse
sotto
e sopra
la greppia, quelle erano le crusòurë,
dove
si
faceva
passare la catena per legare la mucca, allora la mia porzione bisognava
che passasse sopra, io non facevo tanto economia...
-La bëcësà si
faceva
con
il fieno
sbriciolato, con
l’arcò, le orecchie d’asino (plantago),
le foglie dell’unghia
(tussilago), oh faceva latte (ironico), era un nutrimento speciale....
eppure mia nonna aveva quella baciasà... erano obbligate a
mangiarla, non avevano altro...
Per le pecore dicevano tre trusa, ma le pecore mangiano un
po’ l’erba
delle patate, le foglie dei frassini, le tenevano allegre le pecore
(ironico) oh alle pecore non davano mica tanto, le tenevano proprio
allegre allegre le pecore oh ia ahi... c’erano delle volte
che
perdevano la lana, le pecore sono sempre state un po’
maltrattate....
appena c’era un ciuffo d’erba in primavera via le
pecore e allora
lì incominciavano poi, la pecora aveva la stagione estiva
molto
più lunga perché dicevano che quando il ribes
germoglia
la pecora mangiucchia, quando il ribes fiorisce la pecora si pasce.
(*) in realtà mentre per una pecora bastavano tre trusa, per
una
mucca se ne calcolavano circa 15/16 anche se molto dipendeva delle
dimensioni delle trusa: alle mucche si dava di preferenza il fën
‘d metiu, raccolto in basso e spesso trasportato a basto con
trusa di
dimensioni più modeste.
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